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BRUCE MAIN Swimming in the pixel sea Singularity Songs 2011 USA

Torniamo a parlare del polistrumentista americano Bruce Main con il suo nuovo album “Swimming in the pixel sea”, contenente nove brani per una durata complessiva di circa un’ora, che ancora una volta lo vede impegnato a suonare quasi tutti gli strumenti, coadiuvato solo da altri due collaboratori in alcuni brani. Anche in questa occasione siamo di fronte ad un disco essenzialmente immerso nel passato e nel periodo più fulgido del rock. Inevitabile pensare, mentre le note scorrono, a quegli anni ’60 e ’70 che tanto hanno lasciato in eredità a noi appassionati ed anche agli stessi musicisti che oggigiorno provano a regalare nuova musica. Le influenze più facilmente avvertibili sono quelle dei Beatles, di Mike Oldfield, dei Genesis e soprattutto dei Pink Floyd. I bagliori floydiani sono individuabili fin dalle primissime battute, nel brano di apertura “The contest”, che, inizialmente acustica, rimanda soprattutto alle ballate di Waters e soci, nonostante qualche schitarrata acida qua e là. In effetti la proposta di Main si basa soprattutto su lunghe canzoni e docili melodie, fondendo pop-rock orecchiabile e raffinato e progressive non troppo impegnativo. Anche quando si spinge in parti strumentali un po’ più ariose, guidate solitamente dalla chitarra elettrica, tutto fila via liscio e con naturalezza. Lo space-rock della title-track rievoca ancora i Floyd e non sembrano distanti i territori battuti dai primi Porcupine Tree e in questo e negli altri brani si punta molto su fraseggi delicati e un po’ malinconici. Solo di rado ci capita di ascoltare qualche momento un po’ più articolato - che comunque non arriva mai ad un elevato grado complessità - puntando su effetti sonori stravaganti e quasi ambient (“Maelstrom”) o su sequenze psichedeliche tutt’altro che estreme come avviene, ad esempio, con le distorsioni chitarristiche presenti in “Second life”. Difficile ascoltare picchi indimenticabili, ma nemmeno si notano cadute di tono che possano colpire negativamente (a meno che non siate refrattari ai ritmi lenti e alle atmosfere sognanti, preferendo l’aggressività del rock, nel qual caso vi dico subito che non è il caso che vi avviciniate a questo lavoro), anche se qualche lungaggine fa affiorare un po’ di noia verso la fine. Sforzo nel complesso apprezzabile, anche se non sempre ispirato, soprattutto in quei momenti in cui Main prova a sperimentare qualcosa di diverso e di meno immediato.


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Peppe Di Spirito

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