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MY NAME IS JANET |
Red room blue |
Galileo Records |
2011 |
RUS |
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Progetto prog-metal multinazionale per il tastierista e cantante russo Dmitri A. Lukyanenko, in arte Jim Aviva. Proprio con le sigle Aviva ed Aviva Omnibus si era fatto notare per delle riletture in chiave prog di grandi maestri classici come il connazionale Tchaikovsky. Stavolta, avvalendosi della produzione dell’esperto chitarrista Andy La Rocque (ascia del “pitturato” King Diamond, tra gli altri), si dà alla composizione di un “metallo progressivo” (cosa già fatta a suo tempo con i Masquerage) parecchio raffinato e curato sia nelle sonorità che nei testi. È la storia di un uomo che si trova segregato all’interno di una casa e smania dal desiderio di fuggire all’aperto. Di fronte a lui otto porte rosse, strette e perigliose, dietro le quali si cela ogni volta qualcosa che gli fa ricordare parte della sua vita non certo felice. Alla fine, infrangendo ciascuna porta, ottiene la tanto agognata libertà. Ma – la più importante delle domande – il protagonista dimostrerà di possedere la fantasia necessaria per dar forma alla sua nuova vita? Come se non bastasse, il concept si muove su due linee parallele: il corpo umano è infatti visto allegoricamente come una sorta di Torre di Babele e le persone che vi vivono dentro rappresentano i pensieri confusi che si agitano in ciascuno di noi. Un lavoro raffinato, si diceva. Anche troppo, a dire la verità. Dopo l’iniziale “Tower of Babel”, dieci minuti che fanno davvero ben sperare ed in cui il chitarrista/bassista Eric Rauti dà sfoggio di tutta una serie di assoli veramente incisivi, l’aspetto formale prende decisamente il sopravvento su quello sostanziale. Sì, c’è il quasi rap di “On the Powerful Waves (That Was the Real Truth)”, comunque in un contesto davvero troppo “pulitino”, ma questo è tutto? Non si può parlare male di quanto messo in piedi da mr. Aviva, però le tracce scorrono esattamente come uno di quei libriccini anonimi che qualcuno ogni tanto (chissà poi perché) si porta in spiaggia: senza lasciare niente. Sinceramente, il genere scelto, impegnativo anche nelle sue fasi più spensierate, in questo caso ne esce abbastanza svilito. Le conclusive “Cold Heaven” (dove compare lo stesso La Rocque) e “World’s Still Tragic” già appaiono più interessanti, con degli spunti atmosferici che fanno riflettere sulle scelte intraprese dal compositore dell’Est. Le possibilità di dare qualcosa in più ci sarebbero, quindi. Occorre però esserne consapevoli e soprattutto volerle tirar fuori.
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Michele Merenda
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