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SIMON MCKECHNIE Clocks and dark clouds autoprod. 2013 UK

La domanda che maggiormente mi è saltata in mente durante l’ascolto di questo lavoro è stata: “Che cosa sto ascoltando?” La risposta ha stentato ad arrivare e via, via che i brani scorrevano la prima, la seconda e anche la terza volta, niente di fatto. Certo, il progressive in linea generale era palesemente trattato, ma molti i momenti “strani” e persino fuorvianti dal tema prog a cui normalmente siamo abituati. Mi rendo conto che ciò che dico sia estremamente contraddittorio con ciò che è intrinsecamente progressive, quel crogiolo in continua evoluzione e ricco di trovate nuove e sempre appassionanti, quell’amalgama di generi e di tutto ciò che è musica pensata e suonata, quel concetto musicale a cui tendenzialmente non riusciamo a dare reale connotazione, quello, insomma. Perché, in effetti, in questo disco ci sarebbe proprio tutto quanto fa prog, eppure c’è anche qualcosa che stride e porta lontano.
Or dunque, Simon McKechnie è un fior di polistrumentista che, esclusa la batteria dell’ottimo Adam Riley, suona ogni cosa udibile nel disco e in più canta. Dichiara, sul proprio sito, di aver trovato estremamente creativo lavorare sul progressive. E qui casca l’asino. Sappiamo tutti quanto sia divertente, duttile e malleabile la materia, ma credo sia fondamentale discernere l’esigenza, la voglia, il desiderio, la spontaneità del gesto rispetto alla semplice intenzione. Già, perché tutto diventa o non diventa, coinvolgimento, pathos e sentimento. Se il mezzo sia spontaneamente utilizzato o se sia stato scelto per allargare le proprie possibilità espressive può essere tema di discussione e di fondamentale risultato? Credo di sì, ma vediamo qualche dettaglio. Il giovanotto londinese, per il disco, ha inciso sette brani. La loro lunghezza è media, intorno ai 7 – 8 minuti, sono brani variabilissimi nello sviluppo, complessi e articolati, non solo nelle parti strumentali, ma decisamente anche nei cantati impostati spesso su poliritmie e in maniera anche molto personale. I tempi dispari saltano fuori a profusione, il costrutto e d’abitudine sorprendente e il déjà vu non è quasi mai in agguato. Tutto è fatto per benino e la voce dell’autore è spesso impressionante per elasticità ed escursione tonale da parti profonde ed espressive a lancinanti e tormentati falsetti, ma a parte questi ultimi, credo che le tre ottave di range siano abbondantemente affrontate. Le chitarre, suo strumento principe, riempiono ogni spazio, ci sono parti dove se ne sentono svariate sovraincisioni tra arpeggi, sfondi ritmici e solista, dando l’idea chiara e lampante di capacità di gran livello. Eppure, al di là di tutti questi aspetti che sanno inevitabilmente di positivo, c’è qualcosa che non convince ed è un senso di freddezza e di matematica scienza musicale. Intendiamoci e fughiamo i dubbi perché i brani sono anche belli e piacevoli da ascoltare, manca un po’ emozionalità generalizzata, di quell’indispensabile porzione di cuore e di pelle d’oca che il progster, sempre, richiede.
Giusto per fare una classifica dei brani e delle soluzioni migliori dell’incisione partirei dalla minisuite “He who saw the deep (Gilgamesh)” l’iniziale “Mother and daughter” e la finale “The emigrant”. In mezzo, tante cose belle, ma anche parti un po’ particolari dove il prog che ne viene fuori è un qualcosa di contaminato da soluzioni che sembrano sfuggite di mano. Come talune scelte “moderne” non troppo centrate come in “God particle” o in “The city in the sea”, dove le impostazioni sonore e ritmiche portano direttamente ai temi alla Mars Volta e dove alcuni attacchi indicano il math rock come riferimento di modernizzazione e di complemento. Se proprio devo, lo faccio, e indico in Rush, Zappa e Yes i principali punti di riferimento dell’autore. Ma non pensate di trovare nulla di effettivamente riconducibile ad essi, vabbe’ forse qualche punto chiaramente Rush c’è, ma credo sia importantissimo segnalare la forte personalità della proposta. Se un po’ di freddezza e un po’ di calcolo non vi spaventano questo disco può rappresentare un buon momento divertente.



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Roberto Vanali

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