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MOTO ARMONICO Down to Timavo Andromeda Relix 2014 ITA

Strano… La discesa del Moto Armonico nel fiume Timavo – metafora del viaggio nella parte più oscura dell’anima come strumento essenziale per un’emancipazione finale dell’individuo – sembra portare l’ascoltatore indietro nel tempo, in un flusso che a ritroso fa risentire le sonorità delle vecchie prog-metal band italiane di (quasi) fine millennio. Dal ’92 in poi, infatti, anche il Belpaese disse la propria in merito, sfornando tutta una serie di compagini che spesso presentavano strumentisti in comune. Grazie ad alcune etichette coraggiose tipo la Lucretia Records o la Underground Symphony, si diede corpo a qualcosa di simile ad un vero e proprio movimento nazionale che qualcuno (forse erroneamente) definiva addirittura “Metal-prog”. Sfumature linguistiche e revisioni storiche a parte, sia la grafica che i contenuti musicali di questa seconda uscita della band del chitarrista veronese Uccio Gheezer ricordano lavori come “Inside the moon” (1995), all’epoca promettente esordio degli Athena, prima che quest’ultimi virassero verso territori decisamente power. La Andromeda Relix, dal canto suo, è un’etichetta che ha deciso di mettere sotto contratto delle realtà ritenute promettenti e quindi dare loro l’occasione di sfruttare un trampolino di lancio verso qualcosa di più grande, ampliando la proposta del proprio range musicale. Difatti, i Moto Armonico (dopo le varie esperienze del fondatore nei Punto Morto Superiore e NaBF4) erano nati come band di supporto alla cantante Patty Simon… prima che le strade si dividessero e che la singer finisse nei Carillon, guarda caso anch’essi nella scuderia Andromeda. Arrivato il nuovo potente ed espressivo Luca Adani alla voce, i Moto Armonico firmano anch’essi per la label in questione, abbandonando del tutto il cantato in italiano del precedente esordio autoprodotto in favore dell’inglese, forse riuscendo ad andare anche al di là dei sinfonismi degli inizi. Chi ci ha sentito un incrocio tra i Pain of Salvation ed i primi Dream Theater non ci è andato poi così lontano, soprattutto se si ascolta un brano come la lunga “Sand holder”, con una abbondante parte melodica che si fa ascoltare con molto piacere. Anche se “The shadow” ci ricorda sempre la famosa “pseudo-scena” tricolore di metà anni ’90 del secolo scorso, con le sue soluzioni comunque piacevoli e, per l’epoca, a tratti entusiasmanti. Le partiture, soprattutto nell’ottica dei solismi, si basano sull’impatto diretto, immediato ed orecchiabile; lo si evince sia su pezzi come “Spring time”, “Arcana” e “Nowhere land”, e sia su composizioni più complesse come la title-track o la conclusiva “Cracks” di oltre tredici minuti e mezzo.
Se i rimandi ad un approccio italico in cui si era speranzosi ed aperti positivamente al mondo (anche nelle sue mode) solleticano ancora i gusti musicali dell’ascoltatore, allora questo album sarà un piacevole ascolto, nonostante l’incisione non sia esattamente il massimo (ma forse, anche questo rimanda al sound di quegli anni). Se invece stava sulle scatole tutto quel contesto già quando lo si stava vivendo in contemporanea… beh… oggi l’ascolto non cambierebbe tale posizione nemmeno di una virgola!


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Michele Merenda

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