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MARBIN The third set Moonjune Records 2014 USA/ISR

Quasi mille spettacoli lungo l’ampio territorio statunitense negli ultimi tre anni e mezzo, una collaborazione importante con Paul Wertico in aggiunta ai tre studio album a proprio nome che hanno denotato una naturale progressione di attitudine, senza contare nuovi progetti che promettono (grosse) novità… E nel frattempo esce questo particolare live album, definito quanto di più “aggressivo” il duo di sax e chitarra Markovitch-Rabin – da cui nasce la sigla “Marbin” – abbia fino ad oggi pubblicato, contenente dieci composizioni quasi tutte inedite o comunque suonate in maniera differente rispetto alle versioni originali. Tra marzo ed aprile 2013 l’ensemble ha affrontato un tour di quattordici date, da cui sono stati per l’appunto estrapolati questi dieci brani, ciascuno da un’esibizione diversa. Come rivelato dal chitarrista Dani Rabin in sede di intervista (su queste stesse pagine online, dove era stata anticipata in anteprima l’uscita del live), il gruppo in genere suona tre set per serata: il primo è un set più accurato e quindi formale; il secondo risulta già essere più sciolto e rilassato; il terzo, invece, grazie alla combinazione tra tarda notte e alcol, è qualcosa di speciale, tanto da essere definito dai relativi artefici come “drunken fusion”. Una “fusion ubriaca”, in questo caso intesa come Musica pervasa dal sacro fuoco creativo dell’alcol nel senso più arcaico e positivo del termine.
I due musicisti israeliani suonano ormai da anni negli USA e le loro prestazioni non possono prescindere da una sezione ritmica dal costante e vibrante incedere afroamericano, che con Justin Lawrence (batteria) e Jae Gentile (basso) forma una spina dorsale tanto solida quanto flessibile su cui i solisti possono esprimere liberamente loro stessi. Difatti, le sei corde di Rabin in questa occasione suonano invasate da un furore dionisiaco di Nietzschiana memoria, capovolgendo la visione del guitar-hero dotato solo di tecnica complessa e assolutamente privo di passione creativa. Qui di perizia ce n’è tanta, ma suonata con una forza che annienta i soliti schemi, viaggiando a spron battuto tra jazz/fusion, blues e rock per lunghissimi minuti, mantenendo peraltro sempre intatta la medesima energia travolgente. Il chitarrismo di Rabin in questa incisione ricorda illustri colleghi che proprio dal vivo hanno dato il meglio, come Shawn Lane (rip) durante le esibizioni con il bassista svedese Jonas Hellborg, Mike Stern con il sassofonista (guarda la casualità) Michael Brecker, o come gli italianissimi Corrado Rustici durante l’ultimo tour in Giappone e Franco Mussida della PFM nelle sue indimenticabili “composizioni in estemporanea”. Ma anche John Petrucci in certi momenti topici con i Liquid Tension Experiment… Una sintesi brillante che tra legati velocissimi e vibranti colpi di leva viene immersa nel denso magma della vecchia scuola, ereditato direttamente da Jimi Hendrix.
Il contraltare “apollineo” e razionale dovrebbe in teoria essere rappresentato dall’altro fondatore, Danny Markovitch, che attinge a piene mani dalla propria tradizione popolare; nella realtà, almeno in questo caso, il sassofonista sembra anch’egli avvolto dai “fumi di Bacco” e con degli attacchi micidiali composti sulla scia del klezmer più scatenato dà poi modo al proprio compagno di lasciarsi andare a briglia sciolta. Tanto per fare un paio di esempi, il disco si apre con “Special Olympics”, il cui preludio ricorda un serpente a sonagli che sta per assalire la preda, e si conclude con “Volta” (già edita sul precedente “Last chapter of dreaming” - 2013), che attacca con un urlo di guerra capace di far tremare la terra sotto i piedi a chiunque si trovi davanti. In entrambi i casi, Rabin parte all’attacco col coltello tra i denti, sciorinando assoli travolgenti e viscerali senza alcun freno inibitorio. Tra i pezzi già editi c’è un’ottima e lunga versione di “Redline” (sempre sul solito “Last…”) e, a sorpresa, “Crystal Bells”, che in origine si trovava in versione pacatissima sul primo album omonimo del 2009; qui, invece, acquisisce l’andamento di un’inesorabile ed epica saga dal sapore nordico, segnalandosi come uno degli episodi migliori in assoluto. Markovitch si mette in luce anche su “The Depot” e soprattutto sull’intensa “Culture” – altro momento topico dell’album –, ma occorre segnalare la sua presenza esclusiva nella struggente malinconia di “Northern Odyssey” (con un inizio che ricorda a tratti quello di “Hey Jude”…). C’è poi un trittico in cui il jazz, il blues e la tradizione klezmer vengono riproposti in maniera di volta in volta simile – “Vanthrax”, “Rabak” e “Splaw” –, aggiungendo però un brio ed una complessità sempre maggiori.
Le composizioni inedite di questo lavoro sono state scritte tra il 2008 ed il 2011, lasciandone comunque fuori delle altre. Nonostante i Marbin e la stessa MoonJune abbiano ribadito la costante evoluzione sia del sound che dell’approccio compositivo del progetto, si rimane nella speranza di poter prima o poi ascoltare un secondo capitolo live in cui si possa usufruire di quanto è stato purtroppo escluso. O che magari vengano un giorno riproposti per intero ottimi concerti come quello dell’Auntie Mar’s di Manhatthan o quello dell’Eronel a Dubuque (si possono comunque apprezzare per buona parte sul “tubo”).
Intanto, per i fans del’ensemble israeliano-statunitense e per tutti gli appassionati del tipo di musica sopra descritto, “The third set” si impone senza mezzi termini come una delle migliori uscite dell’anno 2014. In assoluto.


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Michele Merenda

Collegamenti ad altre recensioni

MARBIN Marbin 2009 
MARBIN Breaking the cycle 2011 
MARBIN Last chapter of dreaming 2013 

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