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MORAZ ALBAN PROJECT |
MAP |
The MAP |
2015 |
SVI/UK |
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Ogni tanto ricompare anche Patrick Moraz. Il tastierista svizzero celebre soprattutto per aver fatto parte degli Yes ai tempi di “Relayer” nel 2015 ci presenta questo nuovo progetto nato insieme al batterista statunitense Greg Alban. L’album intitolato “MAP” dura poco più di tre quarti d’ora e ci offre nove composizioni nuove di zecca interamente strumentali e firmate Moraz, che soddisfa così la richiesta del vecchio amico Alban di realizzare un lavoro insieme. Si tratta di un disco che sembra far convergere svariate esperienze dell’artista svizzero, mettendo in mostra elementi di fusion, rock e jazz, un livello tecnico sicuramente elevatissimo, ma anche un innato senso per la melodia, in alcuni frangenti persino troppo accattivante. In certi brani sono presenti solo Moraz e Alban, in altri sono presenti ospiti alle percussioni, al basso, al sax e al sitar. Ma anche nei pezzi in cui sono presenti solo i due protagonisti principali non si avverte una povertà timbrica, perché con le tastiere si riesce a dare una certa varietà. Anzi, paradossalmente, i brani suonati in duo (“Jazz in the night”, “The drums also solo” e “Alien species”) risultano anche quelli più vivaci, visto il loro orientamento fusion che permette al tastierista di prodigarsi in esecuzioni che mettono in mostra le sue grandi capacità. Un altro momento che presenta caratteristiche simili è “Alien intelligence”, up-tempo immediatamente coinvolgente che viaggia spedito per circa cinque minuti. “Jungle aliens” è la traccia a cui è affidato il compito di aprire il lavoro, con una sorta di fusion compassata, in cui risalta immediatamente il bel lavoro alle tastiere. Vagamente Yes “Strictly Organic”, ma senza acrobazie e quindi senza paragoni con “Relayer”; invece, “Canyon afternoon” va in direzione jazz-rock, con una certa orecchiabilità e con il sax in bella evidenza. “The real feel” e “Mumbai matra” rievocano certe esperienze di Moraz nella world music e nella new-age, ma si legano benissimo all’andamento generale, senza perdere le connotazioni elettriche e non fanno perdere minimamente l’omogeneità che si avverte in “MAP”. Tirando le somme possiamo sicuramente elogiare la grande prestazione di Moraz, che si mostra in gran forma e con lo smalto di un tempo. Ha preparato delle composizioni che non fanno gridare al miracolo, ma che si lasciano ascoltare con un certo piacere. Il suo tocco risalta in continuazione, mentre solo di rado sale in cattedra Alban, che qualità pure ne ha da vendere. Si ha l’impressione, in pratica, che Moraz abbia creato un disco che esalti maggiormente le sue caratteristiche che non quelle del compagno di questa avventura e che, nonostante il nome di entrambi in copertina, sia più un lavoro keyboards-oriented e che il batterista, a parte in un paio di occasioni (“The drums also solo” e “Mumbai mantra”), sia più un ospite di lusso che il cotitolare del progetto. Il giudizio per il disco è sicuramente positivo, magari non esaltante, ma penso che gli estimatori del talento svizzero resteranno contenti.
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Peppe Di Spirito
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