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Dietro questa sigla si esprime una band di nuova e anomala formazione capitanata da Percy Jones. Credo che chiunque legga regolarmente le opere recensite in questo sito sappia ben più di poche cose su questo fenomenale bassista, quindi evitiamo le sue presentazioni. Per chi, invece, si sia affacciato solo occasionalmente si può citare semplicemente il nome Brand X.
Percy Jones, quindi, nonostante la sua notevole e lunga carriera, arriva al primo album “solista” solo adesso e lo fa puntando su un jazz rock di forte matrice classica, tanto che spesso sembra di essere all’ascolto di un disco anni ’70. La band che lo accompagna in questa avventura è davvero degna di nota: Stephen Moses, batterista con collaborazioni di livello John Zorn, David Phelps, allievo di John Abercrombie e di jazzisti della caratura di Dave Liebman e Dave Holland e Chris Bacas, già sassofonista nientemeno che con la Buddy Rich's legendary Big Band. Nomi altisonanti che contribuiscono non poco alla riuscita complessiva del disco. Tutto il disco si fa assaporare per la commistione di sapori antichi e moderni, suoni molto tradizionali con arrangiamenti più di taglio odierno o, al contrario, schemi da jazz classico con suoni freschi e puliti. I nove brani incisi per questo lavoro dimostrano una forte coerenza e danno un’idea molto compatta ed omogena al disco. Gli elementi primari che secondo me escono prepotentemente dai solchi sono la serietà, la professionalità, la gioia di suonare ciò che piace e il saperlo fare con grande maestria. Detto questo potrebbe sembrare che io ritenga la musica prodotta un ché di secondario. Ovviamente no, ma la si può definire come il prodotto finale di tutte le qualità citate. Quasi che lo scopo primario, l’esigenza musicale che è alla base di tutto, sia più questione di esecuzione che non giustificazione. Cioè, non suono per avere un prodotto musicale, ma faccio musica, indipendentemente dal fine. Tralasciamo il parafilosofico e passiamo a vedere i brani che presentano sì notevoli, difficili e predominanti parti di basso, ma larghissimo spazio è lasciato a tutti e gli assolo si susseguono con fitta regolarità. Già l’avvio con “Call 911” presenta un jazz rock serratissimo, arricchito di strappi all’unisono tra sax e basso e un guitar solo forte e deciso ed è impronta un po’ per tutto il lavoro, seppur spesso si finisce in zone più sperimentali e dalle trame meno prevedibili, come in “Bad American dream pt2”, pregna dei sapori dell’improvvisazione e di leggere dissonanze orientaleggianti. Particolare ed accattivante l’avvio di “Magic Mist” nel quale un filtratissimo basso diviene sitar e prepara il tappeto fino all’ingresso di un sax prima lontano e poi sempre più presente, tra accenni world music e Oregon prima maniera. Da segnalare la notevole “Guns and Pussy”, con un groove pazzesco e un basso che schiaccia note come grani una macina e stacchi, unisono, assolo, in meno di cinque minuti a sfiorare persino temi alla Soft Machine, gran pezzo davvero. Disco che, come si capirà, mi è piaciuto molto, dotato di quella grande e rara incapacità di stancare, sfaccettato e ricco come solo un album di livello superiore può essere. Consigliatissimo.
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