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MORRIGHANS |
The three circles of death |
autoprod. |
2017 |
FRA |
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Il dirigibile avanza in un cielo dai colori bruciati, circondato da corvi agguerriti… È la trasfigurazione di Morrighan, la dea celtica della guerra, della violenza e della sessualità, che spesso viene raffigurata sotto la forma del nero voltatile mentre trasporta i caduti in battaglia. Il sestetto francese prende il nome proprio da questa divinità che semina l’odio e scende tra gli umani trasfigurandosi in maniera terrificante, la cui immagine è poi probabilmente confluita nella saga di Artù sotto forma della sorella Morgana, che per l’appunto ne causò la sconfitta ed il decesso, conducendolo poi ad Avalon. Proprio come Morrighan sembra far parte di una triade (e in alcune sovrapposizioni appare lei stessa come una divinità trina), il concept d’esordio della band transalpina parla dei tre cerchi della morte, qui rappresentati da ciò che non siamo riusciti a realizzare nel corso della nostra vita, la paura dell'ignoto e la disperazione che tutto un giorno si fermerà. È una specie di visione post-apocalittica, aperta da un nonno ed un nipote (il vecchio ed il nuovo, probabilmente) che attendono l’arrivo della dea, che con i suoi corvi segna l’avvento di una nuova epoca. Le vicende dolorose della vita e la paura della morte caratterizzano quella che sembra una sorta di fiaba, qui introdotte dalle note immaginifiche di “Melancholia”, con pianoforte e archi, passando immediatamente a “Mourning Song”, dove si fa la conoscenza della bella voce di Fanny Thibert. Una canzone piacevole, una specie di Pavlov’s Dog meno dinamici e più decadenti. Il finale diventa interessantissimo, registrando una ruvida impennata ed il principio d’assolo che alla fine non si concretizza. Ed in effetti questo rimarrà uno dei difetti principali dell’album: mancanza di assoli, per una formazione che vanta due chitarristi e potenzialmente due tastieristi. La piacevolezza continua comunque con la seguente “Inira Nonx Insomnia”, cantata in francese e resa molto carezzevole. Si è trattato di canzoni più che altro tendenti al pop, con accenti enfatici, che lasciano il posto a “The Reaper’s Hand”, più incline al gothic da classifica in stile Evanescence (voce femminile quasi lirica e controcanto maschile ingrugnito), con un brevissimo arpeggio finale in vago odore maideniano. Un andazzo che continua in “Schizoprenia”, che però non è roboante come sarebbe stato necessario e la pronuncia in inglese risulta parecchio impastata a quella francese; effetto che ad alcuni disturba molto, ad altri invece seduce. In pratica, la proposta viene sintetizzata da “The Road”: narrazione femminile sognante (un sogno non certo tranquillo, comunque) su una base tra pop e post-rock romantico, con accelerazioni simil-metal, che magari vorrebbero anche risultare “cattive” ma non ci riescono affatto. Ci sarebbe da segnalare “The Dark Tides”, forse la migliore del lotto, che soprattutto nelle strofe sembra una virile ballata southern-rock; cantata da una voce femminile, assume chiaramente un’altra connotazione e viene totalmente trasfigurata. Certo, nella title-track si sente un altro accenno di assolo, stavolta meglio strutturato, e la differenza sembrerebbe evidente.Anche la conclusiva “Travel with Spirits” si lascia ascoltare bene, grazie ad una vivacità estranea al resto dell’album. Un esordio formato da canzoni che probabilmente non interesseranno chi desidera ascoltare del prog-rock; questo perché qua non ce n’è neanche un po’, pur volendolo intendere nel senso più ampio del termine. Il pubblico è ben differente, cosa che i musicisti – peraltro promotori del festival «Le Péage Du Rock» – dovrebbero comprendere. Tutto verte sulla voce della Thibert, in cui la produzione sembra voler far confluire tutti gli altri strumenti, creando una fusione volta ad oscurarli. Una scelta che andrebbe rivista, se è stata volontaria; elemento che andrebbe posto in evidenza, se si è trattato di una casualità.
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Michele Merenda
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