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MARBLE HOUSE |
Embers |
Lizard Records |
2018 |
ITA |
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L’album d’esordio di questa band Bolognese (fondata nel 2012 da Filippo Selvini e Giacomo Carrera) che già da tempo prova a farsi conoscere, non mancando di suonare dal vivo ad ogni occasione possibile, ci incuriosisce, non avendo mai avuto modo di ascoltarla, pur conoscendone appunto il nome per la sua presenza ricorrente nell’agenda concerti. Leggo dalla presentazione che il riferimento più ravvicinato per la band è quello dei norvegesi Gazpacho; uhm… è un problema… visto che sinceramente non mi ritengo certo un grande estimatore né tanto meno un esperto di questo gruppo, avendone ascoltato giusto qualcosa negli anni passati, senza che mi sia rimasto molto di quell’esperienza. Sempre dalla presentazione leggo che il vocalist Leonardo Tommasini si è aggiunto al gruppo solo di recente; posso senz’altro anticipare che si è trattato di un acquisto decisamente indovinato, visto che la timbrica e lo stile di Leonardo mi sembrano davvero azzeccati ed ispirati. “Embers” è costituito da soli 5 brani, a quanto è dato vedere, per un totale di 51 minuti di musica. Si tratterà dunque di qualcosa tendente al post-rock, con sonorità oscure e melancoliche provenienti dall’ispirazione nordica cui accennavo in precedenza? La prima traccia sembra in realtà smentire tutto ciò ed andare in tutt’altra direzione. “To Make Ends Meet” parte in maniera brillante, un brano con caratteristiche quasi cinematiche ma veloce e scintillante, con tastiere (Hammond in primis) in primo piano, vagamente crimsoniano e neanche troppo lontano da una fusion robusta che parrebbe mutuata dai concittadini Deus Ex Machina. La seconda metà del brano muta decisamente atmosfere, sfociando in qualcosa di assimilabile a una placida psichedelia west coast. Anche il brano successivo “Reverie” ci rimanda al Prog d’annata, questa volta di sponda Genesis, quantunque in modo molto discreto e in una versione piuttosto energica che va quasi a sconfinare sul lato crimsoniano. La successiva “Riding in the Fog” sembra recuperare un po’ delle promesse sonorità nordiche, in un brano che scorre in maniera abbastanza anonima, a dire il vero, che si risolleva in corrispondenza del crescendo finale che tuttavia viene interrotto in sfumando un po’ troppo presto. “The Last 48 Hours” è invece una ballad malinconica introdotta da morbide note di pianoforte, abbastanza gradevole ma non certo memorabile. In quest’album manca una title-track… ma c’è una traccia che porta lo stesso nome della band; si tratta dell’ultima, punto focale dell’album, a quanto pare, della durata di quasi 25 minuti. Durante l’ascolto di questa viene alla mente in modo prepotente il nome dei King Crimson; dopo un lungo inizio lento ed arpeggiato che lentamente procede in crescendo infatti, la sua parte centrale sembra una parafrasi della sezione strumentale di “21st Century Schizoid Man”. La band si prende tutto il tempo che vuole per sviluppare i temi che ha in mente per questo lungo brano, ed il lungo finale si sviluppa poi in un crescendo emotivo non scevro anche di influenze indie. Quest’album d’esordio alla fine è abbastanza piacevole, non originalissimo a dire il vero ma comunque abbastanza personale. Si saprà probabilmente fare di meglio, anche se comunque siamo già a buon punto, e mi sento di poter consigliare di dargli la consueta chance di ascolto.
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Alberto Nucci
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