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BONIFACIO MADEYES |
Zero over zero |
Ultra Sound Records |
2018 |
ITA |
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Dopo l’esordio “Back to back” del 2014, il matematico Paolo Bonifacio dà un seguito in studio alla sua creatura musicale, preceduto da varie esibizioni live. Insegnante all’American School of Milan di matematica e fisica, Bonifacio è tornato in Italia a quanto sembra nel 2012 dopo essere stato in giro tra Brasile, Canada, Francia e Gran Bretagna. Ligure ma oramai residente nel capoluogo lombardo in cui per l’appunto insegna, il nostro coniuga l’aspetto didattico e quello musicale, estrapolando un background seventies e rielaborandolo con precisione matematica. Ne esce fuori qualcosa che forse suona volutamente più freddo e asettico dell’originale, ma comunque differente. Bonifacio ha dimostrato soprattutto dal vivo di possedere una buona perizia chitarristica oltre a saper cantare, ma in questo secondo lavoro tende a non esibirsi più di tanto. Anche stavolta viene accompagnato da dei fedelissimi, cioè il bassista Timo Orlandi, il batterista Stefano Bertolotti e il trombettista Andrea Paganetto (che invero non appare molto). Last but non least, gran protagonista si rivela il flautista Marco “Jester” Giannetti, che ha avuto modo di dichiararsi apertamente fan di Ian Anderson; il suo è difatti un approccio allo strumento che in questo contesto dà un tocco di indubbia originalità, come se si trattasse a volte di una modernizzazione dell’esordio “This was” (1968) proprio di Anderson e soci. Il riferimento al breve periodo iniziale orientato più al blues, con Mick Abrahams come protagonista, non è certo casuale: le radici sono esattamente quelle, non certo rinnegate, in parte però resettate e poi riprogrammate; l’aspetto “matematico”, in cui ci si avvicina come da titolo alla parte più infinitesimale dello zero, tende a proporre stacchi netti tra una fase e l’altra all’interno dello stesso brano, contribuendo a ricreare un contemporaneo stato di straniamento e anche di alienazione. Tutto questo non può non condurre a sua volta ad un altro periodo storico-musicale, in cui il sound diveniva decisamente più “sintetico”. È il caso dell’iniziale “Ragweed dog”, un rock molto anni ’80 con voce effettata; i suoni qui diventano man mano sempre più corposi (per fortuna!), fino ad un assolo di chitarra che se fosse stato un po’ più lungo avrebbe sicuramente appagato l’ascoltatore. Un discorso da fare anche per “Hold Back – 0QZ”, in cui si riprende quella fase del primo decennio eighties molto popolare soprattutto a Los Angeles, dove si “asciugavano” gli influssi psichedelici per creare qualcosa di più diretto; il flauto svolazza libero (qui vi è anche quello di Anna Bazueva) e conduce ad una seconda parte in cui inizialmente si sentono in lontananza delle voci, per poi correre verso l’orizzonte sospinti dall’armonica di Riccardo Grosso che abbatte ogni ostacolo, ricreando infine un tipo di atmosfera molto rarefatta e irreale. Un buon risultato lo si raggiunge in “Has Anyone Seen My Baby”, contrassegnata da un bell’arpeggio e soprattutto dal flauto indubbiamente tulliano, con un cantato molto simile al rock “desertico” e desolato tipico degli anni ’90, sia nella musicalità che nei testi. Un accostamento decisamente ameno, che soprattutto per l’incalzare del flauto stesso si dimostra poi abbastanza interessante, a cui poi seguono fasi limpide e blueseggianti, oltre a una ritmica funky suonata sul basso che ben si innesta su tutti gli elementi del brano fin qui descritti; è il preludio ad un assolo sulla chitarra slide ad opera di Francesco Montesanti, anche stavolta troppo breve, ma senza dubbio molto calzante nel crescendo corale. E visto che si è in tema, l’anima del blues delle sabbie aride viene pian piano fuori nella seguente “Black Blood”, ben giocata tra una voce ficcante, l’armonica di Marco Pandolfi e ancora una volta questo flauto che disegna strane immagini esotiche, stavolta più simile ai Flor de Loto. I due strumenti a fiato sono ben inseriti nella composizione e non si pestano mai i piedi l’un l’altro, rispettando specifici spazi. Dopo una canzone tipicamente ritmata come “Another Life”, con “Very Natural” si entra definitivamente nell’anima blues più scura, in un’atmosfera che ronza come in una palude e il basso si esprime roco tra le note di chitarra acustica, anche se il ritornello è molto più pop-oriented. Ci sarebbe da menzionare anche “Don’t Give Up On Me”, citata come il sesto pezzo e mezzo, ma sul cd in possesso di chi scrive non compare… Da quello che si è potuto comunque sentire online, si tratta di un brano con organo Hammond e a volte un approccio vocale che potrebbe ricordare quello sperimentale di Tim Buckley. Tornando al supporto ottico, “Fell On the Ground – Love Depression” è divisa come si può facilmente evincere in due parti: all’inizio basata su ritmica giocosa e funky caratterizzata da una batteria più movimentata, oltre al breve assolo di chitarra in stile primo Kenny Wayne Shepered che lascia immediatamente la scena al flauto Andersoniano. La seconda parte – come da titolo – assume toni meno allegri, decisamente più fumosi, e si distingue prima per un assolo di tromba ficcante e poi per una bella coda chitarristica, stavolta lasciata libera di andare. Su “Water” c’è la voce della Bazueva che si fa spazio tra i sussurri degli strumenti a fiato e le risonanze delle corde Floydiane; nel mezzo, il ritornello suona continuo come un mantra che va salendo sempre più di tono, prima che ci si lasci finalmente andare in maniera solista nello stile degli iniziali Körai Örom. Molto interessante anche la cover della Dylaniana “All Along the Watchtower” che diventò un cavallo di battaglia live di Jimi Hendrix, qui riproposta sfruttandone al massimo l’essenza folk-blues; dopo essersi concentrata sugli echi acustici, la chitarra elettrica torna finalmente a farsi sentire (più Jimmy Page che il mancino di Seattle, in questo caso…). Anche qui, comunque, l’uso del flauto ricorda quello dei primi Flor de Loto. Si conclude con i dodici minuti abbondanti di “Salvation II”, divisa in quattro parti, che nella seconda metà si distingue per un assolo intensissimo di flauto (torna a dare man forte la Bazueva, sia al flauto stesso che alla voce). Come si sarà capito, si tratta di un album molto ricco. Non sarà forse prog nel senso stretto del termine, ma la riproposizione di determinati parametri sotto altre spoglie conferisce ai brani un contenuto che indubbiamente va molto vicino alla “progressivizzazione” musicale del rock. Un bel lavoro da ascoltare più volte per poterlo apprezzare come merita, anche se la ricerca costante dell’equilibrio collettivo sottrae l’iniziativa ai colpi di genio solisti. Una caratteristica dei tempi odierni, indubbiamente.
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Michele Merenda
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