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LA MASCHERA DI CERA S.E.I. AMS Records 2020 ITA

Sono passati ben sette anni dall’ultima ambiziosa prova di quella che è una delle varie creature musicali in cui milita Fabio Zuffanti (occorre ricordare, tra i vari gruppi, soprattutto i Finisterre e gli Höstonaten). Ambiziosa, sì, perché non solo “Le porte del domani” voleva essere un concept che addirittura facesse da seguito allo storico “Felona e Sorona” delle Orme, ma per l’occasione veniva pubblicato sia in italiano che in inglese. Oggi la band sembra portare invece avanti il suo classico stile, soprattutto quello messo in bella mostra sul secondo e terzo album. Come già il titolo sembra suggerire, questo è proprio il sesto album de La Maschera di Cera, ma ovviamente i contenuti sono molto più complessi di quanto sembri. “S.e.i.” è infatti acronimo di “Separazione”, “Egolatria” ed “Inganno”, aspetti che ben si confanno ad un’opera che non può non essere definita di impatto melodrammatico e che, a turno, caratterizzano ciascuno dei tre lunghi brani facenti parte di questo lavoro. Non ci sono più Maurizio Di Tollo (batteria) e Andrea Monetti (fiati), sostituti rispettivamente dagli ospiti Paolo Tixi (ex de Il Tempio delle Clessidre) e – a proposito di riferimenti storici del prog – Martin Grice dei Delirium, già presente sulla precedente uscita discografica. Rimane sempre lo zoccolo duro, composto dal già citato Zuffanti, Alessandro Corvaglia (voce, stavolta anche chitarra acustica) e Agostino Macor (un numero svariato di tastiere, che fanno davvero la parte del leone).
Il tema della separazione viene narrato da “Tempo Millenario”, suite di oltre ventuno minuti che si divide in cinque movimenti. Già l’attacco possente de “L’anima in rovina” mette ancora una volta in evidenza il marchio di casa: hard-prog con spunti sinfonici chiaramente riconducibili a vecchie glorie italiche come Il Balletto di Bronzo e soprattutto Museo Rosenbach. Subito dopo, l’atmosfera viene addolcita dal flauto, sulla cui linea ben si inserisce la voce di Corvaglia, che canta di pioggia, casa paterna smarrita, anima in rovina e porte che sbattono. Serve un passaggio nuovamente ruvido per passare alla seconda sezione, “Nuvole gonfie”, dove la melodia viene riportata dagli accordi della chitarra acustica suonata come detto dallo stesso Corvaglia, il quale poi imposta il cantato su una base più ritmata; mentre ci si perde tra la pioggia e i rimorsi, il sax squarcia le nubi, per poi lasciare che si possano richiudere lentamente su loro stesse. Il basso ben delineato di Zuffanti scandisce i passi del protagonista, che sale le scale e passa poi al terzo momento, “La mia condanna”, in cui finalmente si ritrova la vecchia casa e si vivono i propri ricordi con sovrapposizioni e trasposizioni assolutamente oniriche. Ogni elemento, col senno del poi, appare vano e forse lo stesso sentimento di amore serviva solo per avere una spalla su cui piangere. Tutto ciò porta ad evocare ricordi ancora più infausti, che prendono forma in “Separazione” come se fossero nubi nere, cariche di tempesta. La voce è carica a sua volta di effetti; grida degli scontri che diventarono gradualmente continui, fino a diventare una guerra… e a correre addirittura con un fucile in mano. Una corsa commentata dal sax e dalle tastiere, prima che ci si lasci andare al delirio (forse reso nei testi in modo un po’ troppo infantile, in questo caso). “Del tempo sprecato” chiude la suite (la chitarra qui è suonata dall’altro ospite Mattia Cominotto), con un passaggio repentino e il flauto che torna a stemperare le vicende. La conclusione è affidata a un sinfonismo potente, tragicamente cinematografico.
Si passa così all’andamento maggiormente allegro de “Il Cerchio del Comando”, che sfiora i dieci minuti. Le tastiere e il flauto che suonano all’unisono ricordano la PFM, ma pure il cantato potrebbe guardare alla storica prog band tricolore, anche se Alessandro Corvaglia mostra un’attitudine certamente migliore (ancora una volta buono il suo inserimento con la sei corde acustica), forte di una voce convinta e potente. Anche se il testo non è nemmeno in questo caso dei più positivi – è infatti una precisa denuncia al sistema sociale –, l’andamento risulta propositivo e farà sicuramente la gioia di chi è rimasto col cuore e la mente ai fasti del rock progressivo italiano della prima parte degli anni ’70 (fattore anche troppo evidente, occorre essere obiettivi).
Si conclude quindi con “Vacuo Sentire”, altra suite suddivisa sempre in cinque movimenti, di quasi quattordici minuti. Il “Prologo” strumentale si mostra già parecchio vario, caratterizzato dalle tastiere che letteralmente “zompettano” e il sax in stile Van der Graaf Generator che dona alla composizione un alone hard-jazz. “Dialogo” vede due persone (o entità?) rappresentate da solo due lettere, forse il Sé e l’Esterno (si attendono conferme dagli autori), anche se invero il primo fa solo una domanda, poi dice tutto l’altro. “Nella rete dell’inganno” sono ancora una volta gli strumenti a parlare e il sapore jazz aumenta notevolmente, grazie ad un limpido pianoforte che rischia di essere avvolto poi dalle nebbie del sax. Occorrono i sintetizzatori per dissipare la coltre che si stava creando… per sostituirla con un’altra nello stile degli ELP più tecnologici. Importantissimo il lavoro di basso, mentre il piano continua a lavorare sotto traccia. Ed è sempre il basso duro e distorto ad aprire “Il risveglio di S”, martellato dall’incedere della batteria che si concede anche delle significative rullate, prima che l’aria si faccia d’improvviso rarefatta e si possa concludere con “Ascensione”. È la melodia carezzevole a chiudere i giochi, per tre lunghi minuti di commento sonoro che forse potrebbe a tratti ricordare i cari vecchi New Trolls.
I nostri fanno ancora una volta centro, dando alle stampe un gran bel lavoro che nonostante la complessità scorre molto velocemente, grazie proprio alla struttura delle suite. Da ascoltare più volte e apprezzare nelle sue tante sfumature, senza dimenticare la bella confezione, la cui grafica è opera dell’artista statunitense Eric Adrian Lee. Un ulteriore tassello prezioso.



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Michele Merenda

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