Home
 
MEER Playing house Karisma Records 2021 NOR

Pensa un po’, nel 2008 erano partiti come un duo… fino a diventare poi un ensemble sinfonico di otto elementi! Un’avventura cominciata col nome di Ted Glen Extended (dalle ricerche online, il nome sembrerebbe corrispondere ad una specie di pupazzo che fa l’idraulico…) e che nel 2012 ha portato ad un EP di cinque brani contenente persino una hit radiofonica di un certo successo in patria, intitolata “Cabin Pressure”. Nel 2015 il nome viene cambiato con quello attuale, il duo diventa una corposa band e l’anno successivo pubblica il debutto omonimo. Dopo quasi cinque anni, i ragazzi e le ragazze (sì, dalle foto sembrano parecchio giovani) tornano con il loro prog spesso tendente decisamente al pop, connotato da quel tipico incedere sinfonico di stampo nordico che quasi sempre si specchia nella malinconia esistenziale. Eccoli qua gli otto baldi musicisti: Johanne e Knut Kippersund (entrambi alla voce), Eivind Strømstad (chitarra), Åsa Ree (violino), Ingvild Nordstoga Eide (viola), Ole Gjøstøl (tastiere), Morten Strypet (basso) e Mats Lillehaug (batteria). Proprio gli strumenti ad arco creano quella densità che assieme al gioco delle tastiere va a costituire l’ossatura di questo secondo lavoro composto da undici tracce, che nella versione in vinile presenta come bonus track la cover di “Here I Go Again” degli Whitesnake.
“Picking Up the Pieces” viene pian piano introdotta dalle scale di pianoforte, preludio dell’entrata trionfale e drammatica degli archi. Per chi è appassionato di prog, i vari intermezzi di controtempi ritmici – soprattutto nel finale – desteranno sicuramente interesse, mentre i restanti sinfonismi melodici (tipici dei paesi scandinavi) saranno magari apprezzati dagli estimatori di altri settori musicali, più avvezzi a certe sonorità. “Beehive” ricorda alcune cose di Tori Amos, oltre ad altre soluzioni tendenti alla rivisitazione della new-wave che periodicamente si sentono sulle varie emittenti televisive, dimenticandone puntualmente i nomi il giorno successivo, anche se le chiusure di battuta nelle strofe ricordano spesso la nostrana Malika Ayane. Però, anche qui, la parte strettamente strumentale poteva risultare interessante, se solo fosse stata sviluppata nel vero senso della parola. Da un punto di vista creativo, va indicata “All At Sea”, con una prima parte minimale giocata sul suono delle corde, sia esse pizzicate con le dita o solcate dagli archetti, narrata dalla voce maschile, per poi passare alla parte principale più convenzionale, assieme alla voce femminile. La coda finale viene finalmente lasciata alla sola musica, che però sarebbe potuta viaggiare più libera. “Songs of Us” ne è l’immediata prosecuzione, tanto che sembra di continuare ad ascoltare sempre il medesimo pezzo. E a proposito di “minimalismo”, questo viene meglio esplicato su “Child” sempre tramite la voce maschile, ricordando le composizioni di Gotye, artista belga nazionalizzato australiano, dalla timbrica molto simile a quella del ben più celebre Sting.
“You Were a Drum” sembrerebbe aver trovato l’equilibrio tra le due anime, quella sinfonica e l’altra più da “pop minimale”, in cui la voce femminile si avvicina nuovamente a quella della Ayane; ci sarebbe anche un accenno di intensità, che viene però subito spento, come se non ci si volesse lasciare andare vistosamente alla propria visceralità. C’è da chiedersi se sia un effetto voluto o se vi siano delle autentiche inibizioni da questo punto di vista…
“Honey” alterna per lunghi tratti suoni elettronici e sinfonismi, con una piacevole conclusione, mentre “Across the Ocean” fa penetrare in un vero e proprio oceano nordico, freddo, denso e avvolgente. Buona alternanza tra pop-wave e partiture sinfoniche (termine davvero abusato, in questa sede!) su “She Goes”, per poi sprofondare in una solitaria meditazione senza alcun sussulto in “Where Do We Go From Here?”, sfruttando la monocorde voce maschile. Si termina con “Lay It Down”, che sembrerebbe – almeno musicalmente – puntare finalmente verso la luce ed uscire da quel limbo in cui si era sprofondati senza quasi accorgersene. I sinfonismi qui suonano a un certo punto più duri e complessi, forse guardando in parte agli After Crying, pur facendo le ovvie e dovute proporzioni.
Questo ritorno sulle scene, prima ancora di essere ufficialmente pubblicato, ha già ottenuto ottime recensioni. Senza alcun dubbio, quanto proposto trova sicuramente degli accesi estimatori. Come già detto, i musicisti sono davvero giovani e sembra che eseguano accademicamente il bel compito prefissato per iscritto, comunque con tanto entusiasmo. Lo si ribadisce: dovrebbero avere il coraggio di mettere da parte certe inibizioni e non vergognarsi di mostrare al mondo quel che tengono dentro. Vi sono stati solo alcuni accenni, che sono bastati per capire di cosa potrebbero essere capaci se andassero oltre determinate convenzioni. Occorre metterci l’anima… e far suonare gli strumenti, oltre gli schemi precostituiti! Questo non deve essere per forza sinonimo di masturbazione strumentale, bensì lo sforzo di lasciar scorrere la propria emotività e coinvolgere anche chi non fa parte di una determinata schiera di amatori. La sufficienza viene comunque conquistata.



Bookmark and Share

 

Michele Merenda

Italian
English