|
RICK MILLER |
Unstuck in time |
Progressive Promotion Records |
2020 |
CAN |
|
A febbraio 2020, il polistrumentista e compositore canadese Rick Miller aveva pubblicato “Belief in the machine”, quattordicesimo album di una discografia cominciata nel 1984 in chiave new age, per poi tornare come solista addirittura nel 2000, virando maggiormente verso l’elettronica. Dal 2003, con “The one”, Miller entra nel vasto mondo del prog-rock e non si ferma più. Diventa talmente prolifico che, dopo tanti album e la pubblicazione citata in apertura, torna addirittura nella seconda parte dell’anno 2020 con quest’altro “Unstuck in time”. La copertina ricorda molto quella del terzultimo “Delusional”, grigia e allo stesso tempo poetica. Diciamolo subito: un album di Miller è abbastanza difficile che presenti picchi ed impennate repentine, basato in genere su un moto costante e tranquillo, avvalendosi ormai da un po’ di anni dei medesimi musicisti con cui completare ed arricchire determinati passaggi chiave tramite mirati interventi di flauto, violino o chitarra. Il periodo di fermo forzato, dovuto all’emergenza sanitaria, ha portato l’artista ad elaborare ed incidere parecchio materiale, così quest’ultimo lavoro vuole far riflettere proprio su precise situazioni. Tanto che il pezzo in apertura, “Plague”, è basato su alcuni documenti ecclesiastici che trattavano addirittura dell’ondata di peste che nel 1.665 sterminò un terzo della popolazione di Londra. Un brano lungo dodici minuti, posto all’inizio esattamente come era accaduto con il lavoro immediatamente precedente, la cui traccia era a sua volta di poco inferiore alla dozzina di minuti. La composizione in questione sarebbe anche interessante, con il suo incedere oscuro, i rintocchi delle campane, qualche intermezzo di canti gregoriani ed altri cori gotici, chitarre acustiche, note floydiane che scivolano in maniera studiata, ma sarebbe dovuta terminare almeno tre minuti prima, con il bell’assolo di chitarra che ricorda proprio i Pink Floyd di fine anni ’80 e magari sfruttare comunque il violino che chiude tutto con enfasi. C’è una grande profondità di suoni, come dimostrato nella seguente “State of Emergence”, che liberata dai suoi effetti ricorda molto qualcosa di già sentito negli anni ’70 e poi possibilmente rielaborato nel decennio successivo. Risultano ben inseriti i passaggi di chitarra, un po’ alla David Gilmour ed un po’ alla Mark Knopfler più “atmosferico”; tutto un insieme di elementi che rende il pezzo molto gradevole, pur nel suo andamento sempre e comunque uniforme. L’album prevede un particolare intermezzo strumentale: “Covid Concerto”. Tre minuti in cui prendono forma le figure femminili poste nel libretto, suonatrici (con tanto di mascherina chirurgica!) di violoncello e flauto, che in questa atmosfera musicale - inquietante e sintetizzata - sembrano spuntare dall’ambientazione grigio-scura dominante una terra arsa, ormai sterile, immortalata nella foto stilizzata interna. Sono proprio le strumentazioni ad arco a prevalere, per un esperimento nel suo complesso molto interessante. È il preludio a “Fateful Apparitions”, in cui domina l’aria spettrale di chi legge libri misteriosi a lume di candela e assiste a spettrali apparizioni, ma che viene trascinata decisamente troppo nei suoi sette minuti; anche qui si sarebbe dovuto tagliare molto prima e porre maggiore attenzione sull’assolo delle sei corde. Interessanti le soluzioni “latine” intraprese ne “La Causa”, scandita da chitarra classica e percussioni su un ritmo iberico comunque molto (ma molto!) compassato, fino ad arrivare all’assolo simil-chicano nello stile dell’ultimo Carlos Santana, senza però la sua classica timbrica tagliente. C’è il tempo di un altro intermezzo strumentale di profonda e cupa atmosfera, “Lost Continuum”, prima della irritante ritmica elettronica di “In Syne with”, che magari sarebbe risultata più appropriata per una colonna sonora. La base dura a lungo, anche per sottolineare l’astio comunicato globalmente dai mass media (qui visti come cassa di risonanza di determinati politici…), per rilassarsi parzialmente quando si parla di rifugio nella fantasia e poi tornare nuovamente col solito martellamento. La breve e melodica “Broken Clocks” (tipo quelli riportati in copertina) è a sua volta il preludio agli undici minuti e mezzo della title-track, pezzo lungo posto in chiusura, analogamente – pure in questo caso – a quanto fatto sul lavoro precedente. Si tratta forse della migliore composizione, che racchiude tutti gli elementi fin qui incontrati, dominati per lunghi tratti dalle percussioni, per poi aggiungere sporadicamente una maggiore dinamicità nella seconda parte. Passaggi chitarristici da ascoltare ad alto volume, se si è amanti delle timbriche alla David Gilmour. Un lavoro anche questo professionale e gradevole, assolutamente ben prodotto. Non ha però chissà quale picco emozionale, occorre tenerlo ben presente. È quindi un discreto prodotto di intrattenimento, anche rilassante, che va preso esattamente per quello che effettivamente è.
|
Michele Merenda
Collegamenti
ad altre recensioni |
|