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MALADY Ainavihantaa Svart Records 2021 FIN

Quella che mi sembrava una maledizione senza perdono, mi riferisco al titolo di questo terzo album dei Malady, significa in realtà, tradotto dal lettone, “solo verdure”… il che potrebbe effettivamente rappresentare una maledizione per qualcuno, ma male si sposa con l’oscura eleganza di questa musica… Facciamo qualche correzione, perché il traduttore online seleziona, senza che nessuno glielo dica, il lettone ma se separiamo i termini “aina” e “vihantaa” e scegliamo il finlandese, il significato italiano diventa “sempre fantastico”. Lascio a voi le conclusioni semantiche e filosofiche di questo enigma glottologico e direi invece di concentrarsi sul linguaggio universale rappresentato appunto dalla musica.
Lo stile del gruppo ci riporta a un certo filone nordico molto ben delineato negli anni Settanta, con precedenti esemplari in terra scandinava ma anche fra alcuni autorevoli connazionali finlandesi, e mi riferisco in particolare a gruppi come Wigwam e Tasavallan Presidentti, in una veste più tenebrosa e dominata da bellissime tastiere con tonalità vintage. Rispetto alla formazione che già conoscevamo e che resisteva intatta dal 2015, c’è da segnalare l’allontanamento del chitarrista Tony Björkman e l’arrivo di un sassofonista, Taavi Heikkilä (sax alto e tenore e clarinetto), che aggiunge un interessante tocco jazz al mix che già conoscevamo. Le chitarre sono ora ad esclusivo appannaggio del cantante Babak Issabeigloo, dotato di un’ugola esile, non invadente ma perfettamente integrata nel contesto sonoro. Nell’armamentario tastieristico troviamo splendidi gioielli con Mellotron, Wurlitzer, Hammond, Minimoog e pianoforte, domati dall’abilissimo Ville Rohiola ed un synth modulare gestito invece dal batterista Juuso Jylhälehto. Visto che ho citato praticamente tutti i membri della band, tanto vale nominare anche il bassista, Jonni Tanskanen, così da non fare torto al suo ruolo, fondamentale nel gestire le dinamiche ritmiche.
Come al solito l’album ha una durata contenuta con 37 minuti di musica suddivisi in 6 tracce che nell’edizione in vinile vengono egualmente distribuite fra i due lati del supporto. L’esperienza di ascolto è comunque intensa e coinvolgente. “Alava Vaara” (non tenterò di fare altre traduzioni automatiche) entra in scena pesante ed imponente con massicce dosi di Hammond, a passo lento e cadenzato, fra colorati vapori psichedelici. L’atmosfera, cupa ed elettrizzante, si addolcisce quando le sfumature di Mellotron si allungano sullo sfondo di una base ritmica sostenuta da un basso ben presente. Con il cantato, soprattutto, dimesso e malinconico, sembra infine di ascoltare i Landberk oppure i Paatos in una delle loro bellissime ballad lunari. Con “Vapaa ja autio” si presenta a noi il sax con morbidi assoli. Le atmosfere sono notturne e rilassate e la chitarra elettrica è delicatamente arpeggiata. L’atmosfera è gentilmente saturata dalle tastiere, tenute sullo sfondo ma sempre ben presenti. Emergono poi graziosi riferimenti a temi musicali folk che vengono sapientemente incastonati nel contesto sonoro, evidenti in questo caso soprattutto sul finale del brano, con ripetizioni cicliche in accelerazione.
“Sisävesien rannat” si apre con riff di chitarra Hendrixiani e si dilata polverizzandosi in un fitto pulviscolo psichedelico spazzato da venti cosmici e solcato da caldi assoli di sax. Momenti di quiete dominano la parte centrale per far spazio al flebile canto di Babak che si espande in uno scenario elettronico e stellare. Arrivati ormai a metà del nostro percorso ci rendiamo conto che, seppure vi siano qua e là diversivi musicali ed idee più guizzanti, sono le tonalità spente, soft e vellutate a prevalere e questo trend viene confermato anche nel resto dell’album. “Dyadi” entra in gioco sul ritmo pulsante del basso e della batteria ma quando i ritmi si vestono delle delicate coltri tastieristiche le atmosfere si delineano meglio ed emergono influenze Floydiane dal retrogusto nordico. “Haavan väri”, la più breve del lotto (circa 3 minuti), mette in luce le potenzialità del sax nel disegnare elementi melodici di ispirazione folk ma dai riflessi blues.
Con la title track, che è ancora delicata e questa volta impreziosita da timide aperture sinfoniche, siamo giunti ormai alla fine. Il cantato è monotono e spegne molto l’impatto di un brano che forse scorre in modo un po’ troppo pigro, confermando la sensazione di un album meraviglioso per le sonorità, ben realizzato ed elegante ma che avrebbe forse bisogno che certe idee appena abbozzate prendano pieno vigore e questo secondo me potrebbe fare davvero la differenza fra un buon prodotto e un disco notevole in grado di distinguersi da tante altre uscite. Ho ascoltato questo lavoro più volte e sempre con gusto ma conservo sempre forti le piacevoli sensazioni dell’esordio. Alla terza prova mi sarei forse aspettata un balzo in avanti anziché una buona rielaborazione di quanto già pubblicato.



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Jessica Attene

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