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MOUNDRAG |
Hic sunt moundrages |
Dionysiac Records |
2022 |
FRA |
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Che batteria e tastiere da sole siano in grado di generare un sound compatto e possente lo sappiamo già ed è stato ampiamente dimostrato già diversi anni fa da artisti come Hansson & Karlsson, giusto per fare il primo esempio autorevole che mi viene in mente. Non sono molti quelli che hanno deciso di intraprendere la medesima strada e fra questi troviamo questo duo esordiente proveniente da Paimpol in Bretagna composto da Camille (voce, organo, Moog, Mellotron e piano) e Colin Goellan Duvivier (voce, batteria, gong e percussioni). La batteria è sempre ben presente e spesso batte su ritmi serrati spingendo l’energia ad un altissimo potenziale, l’interpretazione vocale, a carico di entrambi i musicisti, è acidula e graffiante mentre a prevalere ovunque sono le pesanti colorazioni organistiche. Il sound è così potente che non si percepisce affatto la mancanza di una chitarra elettrica anche se il genere perseguito è qualcosa di molto vicino a Deep Purple ed Atomic Rooster con riferimenti anche ad EL&P (soprattutto nella lunga ed articolata traccia di chiusura intitolata “La poule”). L’album è un concept che parla di un mondo distopico ed apocalittico creato dall’uomo, minato da crisi religiose e culturali. Viene data voce a diversi personaggi che esprimono i loro sentimenti ed il loro punto di vista, lasciando però sempre aperta la porta dell’amore e della speranza. L’approccio con la traccia di apertura, “The Hangman”, è dirompente: i ritmi sono vertiginosi e l’organo ruggisce letteralmente. L’impatto è quello di brani storici come “Highway Star” (stiamo parlando ovviamente dei Deep Purple) con parti soliste di organo che ricordano molto quelle di John Lord. In questa traccia è ritratto, con sentimenti di rabbia più che di rassegnazione, un uomo ad un passo dalla morte nella cui mente i ricordi riaffiorano in modo dirompente. “Demon Race” è più squadrata e imperniata su ritornelli accattivanti che si stagliano su muraglie di suoni dai riflessi psichedelici mentre con “The Creation” i ritmi diventano più flessuosi e bluesy e a tratti reminiscenti degli Uriah Heep. “Shade in The Night” è una ballad ispirata per voce ed organo che stempera la furia delle tracce precedenti. Fin qui diciamo che abbiamo assaporato un album interessante e ben fatto ma la differenza la fa senz’altro la traccia conclusiva che si estende per ben 20 minuti. Qui il duo dà il meglio di sé con evoluzioni virtuosistiche che richiamano, come anticipato, i primi EL&P. Il brano ha la struttura di una vera e propria mini suite che vede l’alternarsi di vari movimenti, con fasi liriche e psichedeliche ed altre più complesse e stratificate. Direi proprio che questa traccia da sola vale benissimo l’acquisto del CD e potrebbe al tempo stesso rappresentare un importante punto di partenza per il futuro. Non mi rimane che fare i complimenti a Camille e Colin per la loro intraprendenza che ha dato vita ad un album pieno di grinta, molto esplicito per quel che riguarda i suoi punti di riferimento ma interpretato con grande carattere.
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Jessica Attene
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