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NAGAKANAYA L’1classable Musea Parallèle 2012 FRA

Ultimamente non si sa cosa stia accadendo alla storica etichetta Musea: cose francamente sinfoniche relegate nelle sottoetichette, uscite che si diradano e che registrano in alcuni casi crolli sensibili della qualità, per non parlare delle discutibili scelte promozionali che non voglio certamente esaminare in questa sede. Se poi si cerca di spacciare un disco orrido come questo come un’opera originale ed eclettica è il segno che siamo arrivati davvero, non dico alla frutta, ma direttamente all’ammazzacaffè. A partire dalla copertina, più che comico (perché credo che questi qui facciano davvero sul serio), questo debutto si può definire più propriamente ridicolo o, meglio ancora, imbarazzante.
Nagakanaya deriva dal nome di una divinità orientale e designa in questo caso un duo costituito da Fabrice Vanagar, multi-strumentista e compositore, e dalla cantautrice Cerenya. Col Progressive Rock hanno, a dire il vero, ben poco a che fare, a meno che non pensiate che qualche orchestrazione messa qua e là sia sufficiente per rientrare in questa definizione. Musicalmente queste dodici canzoni sono riuscite a rievocare nella mia mente immagini sonore che credevo definitivamente sepolte nel profondo limbo dei miei ricordi, dalle sigle degli anime giapponesi (“Trottoirs d’Halloween“ potrebbe essere per esempio una moderna “Mazinga Z”) ad alcune schifezze anni Ottanta, come ad esempio gli Yazoo (qualcuno se li ricorda?) e in particolare al loro cavallo di battaglia “Don’t go” che sembra nascondersi non troppo bene nello spartito di “Billy-jo”. Per il resto abbiamo coretti, ritornelli, suoni demodé che associo mentalmente a ridicole capigliature cotonate e permanentate e ad un trucco oltremodo appariscente o altre volte a vecchi videogame che rivivono oggi solo grazie a qualche emulatore, ritmi in 4/4 e varie altre chincaglierie. I vaghi riferimenti esotici e all’oriente potrebbero essere quelli dei mitici poppettari tedeschi Dschinghis Khan che però, a differenza di questi, mostravano una buona dose di auto ironia. Il francese è la lingua più usata anche se in qualche traccia, con immenso cattivo gusto, viene tirato fuori un inglese dalla erre moscia davvero inascoltabile.
Ripeto, se qualcuno volesse spacciarvi questa roba per l’ultimo ritrovato della musica, ricordate di rovistare fra gli spazi dimenticati della vostra coscienza e troverete sicuramente qualcosa di somigliante a questo polpettone che, come ogni pasto che avete mal digerito, vi rigurgita nuovamente a livello palatale un miscuglio degradato e vagamente riconoscibile del vecchio sapore. Perché, vi chiederete, recensire questa roba? Per mettervi in guardia ovviamente. Siete avvertiti.


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Jessica Attene

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