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NEEDLEPOINT The diary of Robert Reverie BJK Music 2018 NOR

Stesse tonalità giallastre per la copertina, rispetto a quel gioiellino di “Aimless Mary” che nel 2015 avevamo ascoltato e riascoltato, stesse colorazioni musicali, così amabilmente Canterburyane, così permeate da umori psichedelici e così dolcemente lambite da nuance sinfoniche, stessa formazione a quattro che vede confermato il ruolo dietro le pelli del batterista Olaf Olsen e che vede sempre in primo piano il cantante e chitarrista Bjørn Klakegg nel ruolo di leader e compositore, album altrettanto breve, sempre rispetto al fortunato predecessore, con una durata complessiva che raggiunge appena i 34 minuti per un totale di 9 tracce, tutte giocoforza di durata piuttosto contenuta.
Questa volta la storia è quella di un uomo anziano, bizzarro e un po’ impacciato, che vive da solo in una fattoria, circondato dai suoi animali ma che infine scopre l’amore di Mary. La delicatezza della storia corrisponde a un linguaggio musicale gentile e forse meno sostenuto che in passato, con parti complesse e ben rifinite che fanno bella mostra di sé già da subito, con una title track dominata da suggestivi spunti tastieristici, sempre a cura del raffinatissimo pianista jazz David Wallumrød col suo folto armamentario vintage che ben conosciamo. Gli scenari ci riportano inequivocabilmente verso i Caravan, anche per quel che riguarda il cantato, sempre ben presente e dalle tonalità spente, con aperture sinfoniche limpide e talvolta di ispirazione Genesisiana e con visioni che in altri casi strizzano l’occhio ai Pink Floyd o o ai Camel.
La sezione ritmica, forte del basso instancabile di Nikolai Hængsle Eilertsen, artista che abbiamo avuto modo di apprezzare negli Elephant9, è qualcosa di fluido e di articolato e che volentieri straripa verso il jazz. Il disegno complessivo dei brani se ne giova parecchio facendo leva su soluzioni melodiche intellegibili ma sostenute da arrangiamenti sempre intriganti.
La parte centrale dell’album è qualcosa di più tenue e risplende di tonalità semiacustiche, quelle di “Will I turn Silent”, sussurrata e appena tratteggiata dagli arpeggi della chitarra, quelle di “In my Field of View”, in cui si aggiungono le serpeggianti percussioni tradizionali e un filo appena di organo Hammond a fare da soffice tappeto, e quelle appena più elettrificate di “Grasshopper”, una stralunata ballad psichedelica che sconfina con grazia in un finale jazzy davvero stuzzicante che in qualche modo mi fa pensare all’universo di Wyatt. Si aggancia perfettamente a questo momento più riflessivo una guizzante “Beneath My Feet” che a sorpresa acquista dei contorni fusion e da qui ad arrivare al finale è un tutt’uno, passando per una ammaliante “In the Sea” stranamente Beatlesiana per poi giungere alla conclusiva “Shadow in the Corner”, dipinta con impasti sonori sfumati ed iridescenti e piacevolmente sollecitata da arrangiamenti mobili ed estremamente avvolgenti.
Credo che si tratti di un album non dirompente, almeno non come in passato, come avevo preannunciato, ma in cui le tantissime influenze sono mescolate forse con gusto e fluidità maggiore e che lascia un piacevole sapore in bocca e una sensazione di astinenza che inevitabilmente vi porterà a ripetere l’ascolto più volte. Se stavate ancora aspettando un album da ricordare per questo 2018 lo potreste aver trovato con questa quarta fatica discografica dei Needlepoint.



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Jessica Attene

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