Home
 
NORTHWIND Imperfect harmony autoprod. 2022 NOR

Formati nel 2012 dal bassista Kai T. Brekke e dal chitarrista Lars J. Svendsen, i norvegesi Northwind pubblicano il loro secondo album dopo l’esordio datato 2018. Una proposta hard and heavy che pesca a piene mani nei decenni precedenti, mantenendo comunque sonorità attuali, denotando anche certa attitudine prog grazie agli inserimenti jazzati e soprattutto alla capacità di rendere i pezzi al loro interno costantemente vari. Un lavoro costellato di sorprese, sfruttando in special modo le opportunità fornite dalla voce maschile di Niclas Winther e quella femminile di Mona Stang Svendsen (anche ai sintetizzatori). Ovviamente, la matrice vintage nasce soprattutto dall’approccio e soprattutto dalla tipologia di strumentazione messa in bella mostra dal tastierista Nicky Georgiev (più Don Airey che John Lord, come riferimento), senza dimenticare la base solida – comunque predisposta alle variazioni repentine – garantita dal batterista Hjaran Berge.
“Invisible Heroes” ha un groove iniziale molto hard-blues, con riff e tastieroni in evidenza, di quelli che per intenderci fa sentire oggi Zucchero tanto ganzo con pezzi tipo “Partigiano reggiano” ma che a suo tempo erano un marchio di fabbrica dei Doors. L‘incedere cambia subito dopo e presenta una cadenza anche stavolta già sentita… Basta poco per riconoscere che, già fin dal modo di cantare su questo pezzo, il riferimento va ad Ozzy Osbourne e al Sabba Nero, come se però i vecchi protagonisti avessero traslato ed adattato la famosa “Children of the Grave” alla loro seconda parte di carriera. Certo, il tutto viene sempre intramezzato da quell’inciso iniziale, intrufolato con sapienza, oltre a dei momenti più riflessivi con voce femminile, prima che chitarra e tastiere si lascino andare a dei signori duelli in stile seventies. Si torna poi alla cavalcata d’apertura, con il basso che scandisce inesorabile il ritmo. Il finale sognante è lasciato in un primo momento alle sei corde, affidandolo poi ad un gioco vocale che nella sua enfasi potrebbe guardare verso la teatralità degli Uriah Heep. “Signs” sembra essere connotata a sua volta da riff pesanti, anch’essi fuoriusciti dall’eredità sabbathiana; ma immediatamente partono dei cori melodici – praticamente bucolici – che contrastano tutto, affidando le linee soliste alla voce femminile (ricorda qualcosa… ma che cosa…?). Un giochetto che dura due minuti mezzo e che lascia spazio ad atmosfere in stile decisamente jazz, in cui la voce maschile fa la parte del protagonista in un contesto “fumoso”. Poi, dopo le tastiere che seguono sempre il medesimo stile, ecco che irrompe il ruggito della chitarra hard-rock, con cui si traccia la strada per il ritorno dei cori iniziali. Su “Beyond The End” ci sono persino un paio di parti growl, cantate cioè in stile death-metal, intervallando il solito “pestaggio” con partiture melodiche tipicamente nordiche, cambiando poi repentinamente e ricordando alcuni passaggi degli svedesi Porcelain Moon, mutando subito dopo in ambito gothic e sfruttando sempre quella voce così inquietante.
“Bully” riporta ancora alla teatralità figlia dei già citati Uriah Heep, poi recepita dalle band degli anni ’80 un po’ a modo loro, che ad un certo punto intreccia il caratteristico “solismo tastieristico” della band in questione con le dure cadenze dei primi Savatage; sorprendentemente, si passa in maniera fluida ad un intermezzo chitarristico che sembra totalmente estraneo ma comunque efficace, per tornare quindi alla base di partenza. “Unchain Me” partirebbe anche con un approccio di batteria simil-prog, per poi andarsene totalmente verso altri lidi. Le coordinate sembrerebbero tracciate, ma ovviamente il cambiamento si mostrerà anche qui dietro l’angolo. Un pezzo che piacerà sicuramente agli amanti della musica “dura” con aspetti enfatici, ma che probabilmente finirà per stancare tutti gli altri. “The Dark” denota dal canto suo un arpeggio misterioso, subito accompagnato nel lento incedere dalla voce femminile tanto dolce quanto arcana, entrambi spazzati via improvvisamente da un duro riff. I vari inserimenti vocali, che ne stemperano di volta in volta l’andamento, sono anch’essi tipicamente nordici e alla lunga tendono ad annacquare il brano; ben riusciti comunque i “dialoghi” strumentali tra chitarra e tastiere. Tutto questo, prima che le sei corde si induriscano, lascino il posto ai sintetizzatori e ad un certo punto gli strumenti si riuniscano poco dopo lo scoccare del sesto minuto per un vero e proprio tributo alla parte strumentale di “Enter Sandman” dei Metallica, in versione però psichedelica, oscura e sicuramente più anni ‘70. “March Of The Keepers” è aperta dall’organo ecclesiastico. Il pezzo tende verso un heavy rock in stile statunitense, anche se le parti sognanti di voce femminile, che si vanno via via intersecando, conferiscono un senso di oblio che manca nella matrice originale. Molto bello quando si lascia ruggire la chitarra nella sua epica corsa solista. Magari la si sarebbe potuta lasciare ancora per un po’ a briglia sciolta, terminando prima il pezzo ed evitando di dilungarsi troppo. A proposito di epicità, “Imperfect Harmony” presenta dei momenti in cui sembra che la musica diventi proprio da film, mantenendo sempre un atteggiamento solenne anche nei passaggi più lenti (che somigliano maledettamente a qualcos’altro già sentito chissà quante volte nel passato). E qui viene da pensare che ha ragione chi ha visto in questo lavoro una sorta di “opera rock”, proiettata quindi verso evocazioni suggestive e ad effetto.
La bonus track “Kråkevisa”, infine, è una canzone folk della tradizione norrena, di quelle che ripetono con enfasi determinate frasi magari ostili ad un orecchio avvezzo ad altre lingue, qui però brevemente resa in una versione attualizzata, decisamente hardeggiante, non inficiandone comunque l’andamento di per sé non troppo veloce e sottolineandone la drammatica descrizione. Questa è quindi la conclusione di un album in cui la varietà è dominatrice, riuscendo a far coesistere realtà musicali anche diverse tra loro in maniera assolutamente organica e senza apparenti forzature. Anche se alcuni brani risultano decisamente troppo lunghi, la band può di sicuro ritenersi promossa.



Bookmark and Share

 

Michele Merenda

Italian
English