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L’OEIL DU SOURD Un? Vocation Records 2009 FRA

Ho scovato questa band attraverso un elenco di artisti interessanti stilato da Mike Sary e, visto che il leader dei French TV la sa lunga in quanto a musica pazzoide e stravagante, mi sono buttata alla ricerca del CD. Lo stesso nome “L’Oeil Du Sourd” è così bizzarro da destare curiosità: ...che ne sapranno i sordi di musica? Che riescano ad ascoltarla con gli occhi?... Quesiti folli a parte, devo dire di aver scoperto un gruppo davvero intrigante, al suo esordio discografico e dotato di quella scintilla di sana follia che riesce a far esplodere un talento musicale versatile ed indiscusso. Partiamo da una briosa base di jazz rock illuminata da un sound vintage e sinfonico, questo soprattutto grazie al bellissimo supporto tastieristico di Antoine Tharreau che dispone di Rhodes, Farfisa, Mellotron, Hammond e di varie altre specie di tastiere, e soprattutto dominata dalla performance vocale schizoide e particolarissima di Mathilde Clavier... che a dispetto del nome non suona il piano. Quello di Mathilde non è un vero e proprio canto ma un continuo grammelot di parole incomprensibili che urla, recita, strapazzando letteralmente il pentagramma, a volte con uno stile che ricorda quello di Stella Vander nei Magma e altre volte quello di Dagmar Krause con gli Henry Cow. Si aggiunge a questa miscela una magica spruzzata di psichedelia, in grado di dilatare suoni e sensazioni, con riferimenti ai Gong e suggestioni provenienti dal Canterbury sound che si mescolano a impressioni Crimsoniane e Zeuhl. Movimenta e rafforza decisamente il sound il sax tenore e alto di Hervé Launay, coadiuvato dal clarinetto e dal flauto della stessa Mathilde Clavier, sua complice nel creare una miscela di fiati davvero esplosiva. Lo stile è decisamente eclettico e oscilla continuamente fra situazioni bizzarre e altre seriose, tutte gestite con estrema adattabilità e dotate di un coinvolgente appeal live. Si passa con disinvoltura da una lanciatissima traccia di apertura, “Ods”, alla misteriosa e cupa “à C”, per poi trovarci imbrigliati nelle morbide trame di un jazz rock dal feeling sudamericano con la successiva “Kudjat (tronc)”. Ma le sorprese non finiscono mai e in oltre un’ora di musica ne succedono davvero di tutti i colori. Troviamo vaghi accenti mediorentaleggianti in “Deux trains valent mieux qu’un tu l’auras”, con un violino suadente che si mescola alle vellutate trame del Mellotron, mentre “We are the knights who say ni” si basa su melodie buffe e ripetitive. Quello che mi piace di questa band è il suono ricco e fresco, gli onnipresenti ricami sinfonici, l’audacia e la follia che vengono imprigionate in una forma musicale matura e convincente, la fantasia e una certa propensione verso l’improvvisazione che comunque non sopraffa mai la musica rendendola allo stesso tempo viva ed imprevedibile. Il vero peccato è stato quello di non averli conosciuti prima, sicuramente avrebbero strappato un bel piazzamento nella mia classifica personale delle migliori uscite di quell’anno ma nella vita c’è sempre spazio per rimediare e se anche voi vi sentite incuriositi, prego, accomodatevi: qui c’è pane per le vostre orecchie!


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Jessica Attene

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