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OAK (NOR) False memory archive Karisma Records 2018 NOR

A distanza di cinque anni dal promettente esordio “Lighthouse”, inizialmente autoprodotto ed in seguito ristampato dalla Apollon Records, giunge con il suggello dell’altra “rampante” etichetta scandinava Karisma la seconda prova del trio norvegese costituito da Simen Valldal Johannessen - voce e piano, Øystein Sootholtet - basso e chitarra e Sigbjørn Reiakvam - batteria, con il resto delle tastiere divise equamente tra i tre membri. Il nucleo di base è coadiuvato dai due chitarristi Stephan Hvinden (in forza ai Pymlico) e Ole Michael Bjørndal (Gentle Knife).
L’album si apre col botto: “We, the drowned” è un brano intenso e drammatico, guidato da piano e tastiere atmosferiche su un pattern ritmico ripetitivo, su cui svetta la bellissima e caratteristica voce di Johannessen (non immune da qualche paragone con il compianto Mark Hollis), il tutto a metà strada tra gli Opeth della svolta post-metal (ovvero dal loro “Damnation” in avanti) e gruppi contemporanei di raffinato art rock come Elbow, paragone che sarà confermato dai brani a seguire.
Un’estetica molto ben definita, quella degli Oak, e già dichiarata a carte scoperte: la combinazione chitarra slide/piano evoca “The great gig in the sky”, ed infatti una solida influenza floydiana è spesso utilizzata come base per una ricerca sonora propria, che non disdegna certo contaminazioni con il rock alternativo e l’elettronica, prediligendo tinte fosche e denotando in ciò una certa analogia in campo prog contemporaneo con i conterranei Airbag e Gazpacho, sicuramente non casuale, o con i britannici Anathema. Segue “Claire de lune”, più in sordina, con voce mesta e sussurrata, spesso filtrata, un lavoro chitarristico essenziale ma impressionistico (memore dei Landberk, alle mie orecchie); il refrain conferma l’innato gusto per le melodie evocative, anche se ad un primo ascolto distratto questa caratteristica potrebbe sfuggire, ma ad ogni replay certe linee vocali si insinuano inesorabilmente nella memoria. Un’estesa sezione strumentale con tastiere orientaleggianti su ritmica spezzata mette in chiaro che ancorché fruibile, non si tratta di semplice pop-rock. Si capisce anche quanto le armonie vocali siano ingrediente importante del marchio di fabbrica degli Oak. Con la title-track, la malinconia fin qui dominante si stempera in un brano arioso e accattivante, con battiti di mano impiegati ritmicamente, ma è solo una parentesi, poiché con “Lost causes” torna l’introspezione leggermente claustrofobica, sottolineata da una voce su tonalità bassissime che scandisce lentamente i versi su un fondale di beat elettronici, con scarne pennellate di chitarra forse figlie dei Talk Talk più maturi o dei Bark Psychosis. Tutto ciò si stempera nell’ennesimo refrain liberatorio, raggio di sole in un paesaggio comunque brumoso, accompagnato dalle morbide note del sax di Steinar Refsdal. Quando il brano pare avviarsi alla conclusione, un’esplosione strumentale di scuola post-rock sposta in avanti con maestria il climax emotivo (ed è qui che possiamo ascoltare la chitarra dell’ospite Bjørn Riis dei già citati compagni di scuderia Airbag). La naturalezza con cui si contrappongono sezioni così contrastanti in brani spesso e volentieri sotto i cinque minuti li rende abbastanza densi da poter già costituire delle mini-suite. Dopo un intermezzo pianistico basato un celebre brano di Debussy, “The lights” esordisce apparentemente come un’eccezione alla formula fin qui sperimentata, con una struttura più “free” che lascia piano, Mellotron e linee vocali dimesse a spaziare senza una vera struttura su percussioni cadenzate… si tratta di un espediente che permetterà al brano di far maturare senza fretta il crescendo che lo trasformerà in una cavalcata chitarristica ancora di natura post-rock, dal sapore certo estraneo ai dettami del progressive sinfonico più tradizionale ma ad esso accostabile senza stridori. Il brano più lungo del lotto, ma non il migliore, apprezzabile, ma alla lunga forse un po’ straniante. I due brevi brani successivi, più tradizionali e un po’ anonimi, suggeriscono che l’intensità dei primi brani vada un po’ scemando in coda, anche se in “These are the stars we’re aiming for” si riesce ad accostare un organo solenne, un vocoder ed un banjo! Compito di “Psalm 51” chiudere l’album con una nota di serenità, accomiatandosi con gli ultimi fuochi d’artificio emotivi sparati con l’espediente delle esplosioni strumentali controllate.
Mi rendo conto che una certa via “modernistica” di interpretare un genere musicale ormai incluso nel calderone del classic rock (e forse per questo troppo spesso derivativo o impacciato), possa non incontrare il gusto di chi cerca il “suo” prog su coordinate più organiche e meno glaciali; altrettanto evidente è che cercando una proposta di stampo contemporaneo, difficilmente si potrà riscontrare la qualità a tutto tondo messa in campo da questo lavoro.



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Mauro Ranchicchio

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