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PRESTO BALLET Peace among the ruins Inside Out 2005 USA

Al di là delle personali preferenze musicali, è un fatto oggettivo che il fenomeno del metal-prog abbia portato negli ultimi 10-15 anni una cospicua frazione degli ascoltatori di metal classico ad incuriosirsi al progressive sinfonico e spesso ad approfondirne la conoscenza. Dunque, per quanto si possa mettere in discussione la genuinità di intenti dietro progetti come Transatlantic, Explorer’s Club, OSI, le ardite commistioni tra death-metal o gothic ed il nostro genere preferito, è indubbio che tutto ciò abbia portato sangue giovane (per restare in tema!) in un mondo costantemente a rischio di auto-isolamento.
Questa premessa solo per introdurre l’ennesimo progetto partorito da una mente di estrazione metallica: Kurdt Vanderhoof, il chitarrista dei Metal Church, band con una solida reputazione in ambienti thrash-metal, che rispolverando la sua vecchia passione per il sinfonico dei 70’s chiama a sé quattro collaboratori di vecchia data per dar vita ad un progetto, i Presto Ballet, di dichiarata ispirazione progressive (nel senso più classico del termine). Non un’idea così originale, mi direte, e mi troverete d’accordo, tra l’altro con le band costruite a tavolino abbiamo imparato ad essere prudenti… eppure il risultato è quantomeno convincente, ancorché non entusiasmante. Un prog energico costruito sull’alternanza chitarra/tastiere (con l’Hammond in evidenza, ma anche una buona dose di Moog e Mellotron/Chamberlin), con evidenti rimandi a band come Kansas in primis, ed in misura minore Uriah Heep, Deep Purple, Saga e Styx ma senza mai raggiungere l’eccellenza compositiva di tali altisonanti nomi.
Brani di durata contenuta, spesso dominati dalle tastiere (oltre allo stesso Vanderhoof nella band è presente un tastierista di ruolo, Brian Cokeley, con un passato di collaborazioni illustri) ed affidati alla timbrica potente ma priva di accenti metal del vocalist Scott Albright; grande uso di armonie vocali come da tradizione statunitense ed una sezione ritmica decisa a riempire i pochi vuoti lasciati da un arrangiamento lussureggiante. Colpisce già dal primo ascolto l’esordio aggressivo della title track, infarcita di organo dalla timbrica inequivocabilmente seventies, meno convincenti i brani in equilibrio sulla soglia dell’AOR come “Seasons” o l’hard rock poco inventivo di “Slave”, molto meglio gli episodi più meditati come l’ipnotica “Find the Time” o la semi-acustica “Bringin’ it on” in chiusura.
Ancora una volta, dunque, un disco che fa della produzione cristallina e della perizia strumentale (mai sfoggiata in modo sfacciato) il suo punto di forza e guadagna la sufficienza sul piano creativo: consigliato a chi abbia apprezzato gli album dei connazionali Ad Infinitum, Little Atlas, Blue Shift, Zello ed i primi Spock’s Beard.

 

Mauro Ranchicchio

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