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PRAVDA |
Monophobic |
Sonus West Records |
2009 |
USA |
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Terzo album per la band statunitense, che grosso modo conferma le caratteristiche già presenti in passato, sia da un punto di vista stilistico che qualitativo. Siamo di fronte ad un quartetto che propone un prog-metal senza eccessi: non troppo pesante, non troppo tecnico, non troppo tecnologico, nemmeno troppo imitatore dei punti di riferimento principali del genere. Come accennavamo, “Monophobic” non è che si discosti molto dai precedenti lavori dei Pravda, che anche in questa occasione presentano una serie di luci e di ombre, a dimostrazione che il loro processo di maturazione ancora deve portarsi a compimento. Nove le composizioni di questo cd e si viaggia tra brani brevissimi (tra i quaranta secondi e i due minuti), altri di durata media e due tracce che invece vanno oltre i nove minuti; in meno di tre quarti d’ora la carne al fuoco è tanta, ma mentre ci sono parti ben arrostite, a volte è più fumo che altro. Interamente strumentale, l’album vede i suoi pregi in alcuni frangenti in cui la band si mostra in buona vena con un certo estro creativo; i difetti vanno invece visti in qualche forzatura di troppo, in qualche momento dove si avverte indecisione sulla direzione da prendere con conseguente confusione (vedi “Cattlecar Galactica” e “The nexus”), o in riempitivi di cui non si sentiva il bisogno (scarsa ispirazione nei giochi percussivi di “Thru the trees” e nelle tastiere vagamente spacey di “Syncope”). Per lo più si punta su cambi di tempo e intrecci strumentali, ma, paradossalmente, i Pravda emergono meglio quando si indirizzano maggiormente verso il feeling o quando si allontanano dai canoni del “classico” prog-metal. L’inizio raffinato di “Symphonia” e le sue divagazioni pianistiche, le evoluzioni di chitarra acustica di “Mor guitar”, vagamente hackettiane, ed alcuni momenti molto eleganti della conclusiva “Radio halo” sono tuttavia solo piccoli bagliori in una prova complessivamente un po’ incolore e caratterizzata anche da una produzione a mio avviso non ben studiata, che a tratti fa giungere alle orecchie i suoni degli strumenti un po’ ovattati. Nonostante le buone intuizioni cui abbiamo fatto cenno il disco non riesce mai a decollare per bene e posso solo concludere dicendo che, anche se si evince un lieve progresso rispetto al passato, siamo al cospetto di un lavoro tutt’altro che indispensabile.
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Peppe Di Spirito
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