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PINKROOM Psychosolstice Creative Farm Production 2009 POL

Disco dai due volti quello con il quale esordiscono i Pinkroom, un duo polacco che ha ottime carte da giocare, pur non utilizzandole sempre nel migliore dei modi. Attivi dal 2008, Mariusz Boniecki (chitarra, voce, tastiere, samples) e Marcin Kledzik (batteria), coadiuvati da altri musicisti al basso, alla voce e al violoncello hanno realizzato questo “Psychosolstice”, che si presenta già molto bene, in una confezione digipack apribile in tre parti e caratterizzata da un bell’artwork. Passando all’aspetto musicale, la partenza è molto intrigante, con “Path of dying truth”, aperta da suoni d’atmosfera che confluiscono poi in una sorta di space-rock tecnologico dalle piacevolissime melodie vocali. Ma negli ultimi due minuti ecco il brusco cambiamento, dettato dalla chitarra improvvisamente pesante e metal e a poco servono le tastiere che in sottofondo rievocano il Mellotron. Questa prima traccia mostra i due volti dei Pinkroom di cui parlavamo all’inizio: da un lato c’è questo prog-metal asfissiante, dalle sonorità molto aggressive, non molto fantasioso e che stanca quasi subito; dall’altro, la capacità di lanciarsi in passaggi musicali di rara bellezza, a volte molto delicati, a volte un po’ più ricercati e moderni, ma comunque dotati di grande fascino. Similmente all’opener, anche “Dispersion” mostra gran classe, con un interessante pop-psichedelico un po’ sulla scia dei Paatos; splendide intuizioni, ma anche qui di tanto in tanto quella chitarra ruvida che sembra proprio fuori contesto. I momenti più convincenti restano quelli più ipnotici, come “Quietus”, pop moderno e lunatico, con un indovinatissimo guitar-solo che ha un che di crimsoniano (anche qui il timbro per un po’ si indurisce abbastanza, ma si tratta di pochi secondi) ed un finale guidato da batteria e percussioni, “Curse”, in un crescendo emozionante e malinconico che ricorda vagamente i Landberk, “Moodroom v.2” che, tra cambi di tempo e di atmosfera, evoca invece i King Crimson degli anni ‘80/’90 e che è impreziosita dall’eleganza del violoncello (presente anche in qualche raffinato spunto in “Days which should not be”). Il resto, invece, è orientato su un prog-metal non troppo riuscito (e ancor meno convincente nei legami con la trance elettronica-psichedelica di “Stonegarden”) e su una ballad finale che francamente non rendono giustizia ad un album che poteva essere uno splendido gioiello e che invece è difficile da catalogare e da giudicare tenendo conto dei suoi contenuti. A cosa dare peso? All’occasione sprecata? Ad un talento evidente, ma non espresso ancora al massimo? Ai sognanti affreschi sonori? O invece alla confusione che emerge nelle composizioni più “rumorose”? Alla fine forse sta semplicemente all’ascoltatore scegliere se vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto…



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Peppe Di Spirito

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