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PROTEO |
Under a red polar light |
Ma.Ra.Cash |
2009 |
ITA |
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Il Prog-Pop non è stato certo inventato dai Proteo, contrariamente a quanto verrebbe da pensare leggendo alcuni commenti su questo disco. Il quartetto triestino, attivo fin dal 1996 ma solo ora al proprio esordio discografico ufficiale, ci propone la propria versione di questo connubio molto rischioso, sempre in bilico tra la stroncatura dell’ascoltatore Prog purista e l’indifferenza di chi mastica solo Pop. Questo connubio ci parla di una musica sicuramente molto influenzata dai Police, ma in grado comunque di saperci offrire alcuni momenti più complessi ed escursioni fusion che talvolta però sfociano in partiture più melodiche. Se Prog Pop dev’essere, diciamo che quello dei Proteo è ben fatto ed è di sicuro meno banale di altri lavori di chi non sbandiera questa sua doppia anima. Il lavoro in studio fatto per questo album, dalla registrazione agli arrangiamenti delle canzoni, è sicuramente positivo e la band dimostra che 13 anni di gavetta non sono passati invano; sono molto belle le armonie create dalle due chitarre, sia nei loro momenti più tirati, sia quando porta ad esibirsi in un assolo melodico molto hackettiano.
Le 8 tracce di questo CD hanno una durata media, troppo lunghe per essere dei puri pezzi pop (solo un brano al di sotto dei 5 minuti), abbastanza per sviluppare trame un minimo complesse e ricche di cambi di umore. L’album inizia con tre brani che presentano i Proteo per i loro intenti: “Colors to give” e “Eternity” spaziano su ambientazioni che sanno di Police, Roxy Music o Mr. Mister, con belle parti di chitarra fusion, mentre “Australia” sposta decisamente l’accento sulla ex band di Sting con un brano quasi reggae (uhm… senza troppi “quasi”) che sfocia in un bel finale melodico che introduce al meglio dell’album che ovviamente deve ancora arrivare. Addirittura il gruppo si produce in un brano che sa molto di space rock (“Robota”), unendovi però delle progressioni blues/fusion molto efficaci che a tratti sanno quasi di “Pulp fiction”. Molto bella anche “Van Gogh”, ma le ultime chicche di quest’album vengono aggiunte in chiusura, con l’accoppiata “I wish I could fly” e “Echoes mankind”; la prima è un rock abbastanza tirato con buoni spunti strumentali mentre la seconda è una canzone più tipicamente Prog, anche se il gruppo non rinuncia alle sue peculiarità che la avvicina un po’ a certo pop anni ’80.
L’album, lo avrete capito, non è di quelli che resterà negli annali della discografia Prog di tutti i tempi, ma sinceramente a me è parso di ascoltare un lavoro ben fatto, a partire dal lato tecnico per andare su quello artistico, con una miscela che potrebbe sembrare banale e easy listening ma che banale non è e che non è neanche così tanto easy
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Alberto Nucci
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