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PIKAPIKA TEART Moonberry AltrOck 2010 RUS

“…Le stelle, come se sapessero che ora nessuno le guardava più, scintillavano al massimo nel cielo nero. Ora ravvivandosi, ora smorzandosi, bisbigliavano fra loro comunicandosi qualcosa di gioioso e misterioso insieme...“
Se non fosse stato per un semplice caso la musica di questo gruppo non sarebbe arrivata alle nostre orecchie e avrebbe continuato a brillare a nostra insaputa, come le stelle della limpida notte di gelo descritta da Tolstoj. Chi avrebbe mai detto che laggiù, a Krasnoyarsk, nel freddo cuore della Siberia, esistesse un gruppo di chiara sensibilità europea, così vicino a noi per gusti musicali? Tutto merito di internet e della curiosità che spesso contraddistingue chi si appassiona al nostro genere musicale. Il gruppo è stato infatti notato tramite il suo profilo su MySpace e grazie ad una comunicazione instaurata interamente attraverso un traduttore automatico sono iniziati i contatti che hanno finalmente portato all’incisione e alla pubblicazione di questo album di esordio.
I Pikapika Teart hanno un’estrazione essenzialmente accademica, cosa perfettamente percepibile nel loro tessuto musicale, così perfetto e raffinatamente intrecciato, che combinano ad un approccio moderno, attraverso l’uso di strumenti elettrici e classici, in uno stile che può essere ben definito come chamber rock.
I riferimenti al RIO, filone al quale la band si è sinceramente appassionata, non sono fuori luogo ma troviamo qui anche delle peculiarità che riguardano un onnipresente senso della melodia, i riferimenti alla musica tradizionale, disseminati qua e là come segni cautamente lasciati per ritrovare il cammino, e un’incredibile capacità di evocare immagini ed emozioni attraverso una musica straordinariamente paesaggistica che inconsciamente evoca visioni e sensazioni che ricordano la Siberia.
E’ come se un alito di vento gelido spirasse sempre fra le note di questa musica, tanto che sembra quasi di sentirlo pungere sulla pelle. I suoni, netti e brillanti come aghi di ghiaccio, paiono quasi attutiti da un ambiente immacolato e quasi sovrannaturale in cui tutto sembra fondersi e scomparire.
Il racconto musicale è quasi sussurrato e scivola leggero come una slitta che corre su un veloce sentiero di ghiaccio e che pare quasi materializzarsi con il tintinnio di tanti piccoli campanellini che introduce la traccia di apertura, la leggiadra “Slavyanskaya 1”.
La musica, anche nei momenti più frastagliati, è nel suo insieme sempre fluida e lineare ma, scendendo nei particolari (consiglio per questo un ascolto attento con un buon impianto), troviamo anche livelli di maggiore complessità che ad un primissimo sguardo potrebbero sfuggire, proprio come la neve, così uniforme ad occhio nudo, mostra architetture spettacolari attraverso la lente del microscopio. Ce ne rendiamo conto seguendo per esempio le linee di chitarra (suonata da Roman Nikitin e da Pavel Bushvev), arpeggiata e pizzicata (a volte con un curioso effetto a balalaika) e praticamente sempre intrecciata in maniera articolata con altri strumenti, come lo splendido piano di Marina Bulatova o come il violino di Nastya Shapovalova o la viola di Olga Ziborova. La sezione ritmica è agile e versatile ed in particolare la batteria (di Evgeniy Kryazhlev) offre un ampio spettro di effetti timbrici: notate per esempio come le percussioni in “Slavyanskaya 3” dilatino decisamente l’emotività della musica, suscitando all’inizio un sentimento di curiosità per poi infine accendere la tensione, grazie anche alla complicità del cupo clarinetto basso di Sergey Anelkov. A volte bastano dei particolari a stuzzicare la fantasia, come il suono freddo ed essenziale del piano, a volte è la semplice bellezza della melodia a colpirci, come in “ProeMen Glare of Sunlight” che possiede quasi il fascino cinematografico di una pellicola in bianco e nero, ma altre volte sono proprio le situazioni più complesse a rinfrescare l’attenzione, come nella vivace “Moonberry” che ricorda qualcosa dei finlandesi Uzva. Molto bella è l’idea di inserire qua e là delle brevi sequenze di canto tradizionale interpretate da una voce femminile (quella di Marusya Kozhevrova) non accompagnata da strumenti musicali, come a spezzare il ritmo delle canzoni. Udire questa voce malinconica comparire per brevi momenti nel contesto di un album essenzialmente strumentale accresce il senso di solitudine e di malinconia che pervade quest’opera bella per la sua leggera complessità ma soprattutto perché fatta di emozioni. Proprio per questo l’ascolto è consigliato, non solo a chi ama il RIO o la musica da camera, ma in generale a chi ha un animo sensibile verso le forme d’arte meno standardizzate.



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Jessica Attene

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