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PLANETA IMAGINARIO Optical delusions Cuneiform Records 2011 SPA

Quando nel 2008 la band catalana Planeta Imaginario, sfornò il secondo disco “Biomasa”, molti, nell’ambiente della critica musicale e soprattutto nel mondo della musica jazz d’avanguardia, puntualizzarono quanto quel lavoro avesse valenze straordinarie. Persino Chris Cutler si espresse a favore di questi ragazzi di Barcellona, pronunciando belle parole di encomio. Ora, a distanza di tre anni da quel gioiello, la band si propone con un nuovo lavoro e, come ovvio aspettarsi, non ha compito facile. Con una rotta tracciata in maniera così netta e ambiziosa dal successore di “Biomasa” è giusto aspettarsi tanto e ancora più. Vedremo più avanti il dettaglio degli aspetti tecnici e formali del disco, ma intanto diciamo che, riferendoci pure al titolo, non ci sono delusioni, anche se la freschezza del precedente viene qui un po’ a mancare, per fare spazio – di controparte - a maturità e professionalità maggiori.
C’è una costante costruttiva e compositiva, una linea molto coerente, ma anche un allargamento e un approfondimento verso ogni tema trattato, così che le parti jazz suonino ancora più jazz, i contatti canterburyani siano decisamente più chiari, tutti le finalità e le proposte si siano fatte più nette e robuste. Il grande e sapiente uso dei fiati porta a sonorità del jazz orchestrale, talvolta zappiano, talvolta di più grande rimando alle big band del ‘900 e al grande Gil Evans. Rimane però ben ferma una certa orecchiabilità dei temi, nonostante gli arrangiamenti siano sempre elaborati e ricchi. Per ottenere tutto questo è scontato un grande sforzo compositivo e lo studio che ne è derivato rischia di essere letto come freddezza tematica, un po’ come se tutto fosse pianificato a tavolino. Io non sono molto di questo avviso e credo invece che questo stadio raggiunto, che comunque lascia ancora margine di miglioramento, mantenga una sua emozionalità, semplicemente è da ricercare ad un livello diverso e, pareggiando lo sforzo della band, richiede un passo in avanti anche all’ascoltatore.
La quasi totalità delle musiche è composta dal tastierista e group leader Marc Capel e la sua impronta d’ascolto “britannica”, salta fuori in maniera evidentissima in tutti i 13 brani (alcuni lunghi, alcuni brevissimi) del lavoro, ma, lungi dall’essere padre e padrone dell’esecuzione, ampissimo spazio è dato sia alla ritmica (giusto e dovuto un plauso alla grande tecnica di Dimitri Bikos e Vasco Trilla Gomes dos santos), sia ad una poderosa sezione fiati che oltre al trio base, tromba, trombone, sax (Sugao, Trinh e Muñoz), è ben ampliata da quattro ospiti di cui altri due sax, flauto e corno inglese.
Se i brani brevi si fissano su rapide immagini, molto concentrate nella loro scelta stilistica, i brani lunghi si presentano variopinti, ricchi di variazioni, spesso repentine, dondolando tra psichedelici e canterburyani synth monofonici, tra grandi aperture della sezione fiati e tra tenui sfarfallii di note del Fender Rhodes. Il disco è idealmente suddiviso in quattro blocchi più la minisuite finale, con raggruppamento di brani a ideale tema unico. In realtà l’ascolto presenta varietà e/o consonanze decise e indipendenti dai blocchi suddetti. Una maggiore coerenza si avverte in alcuni blocchi, come quello centrale di “Llepavoreres”, con uno splendido intro eseguito da Capel al piano verticale Challen, fuso con la sua ideale prosecuzione.
Tra le composizioni e pescando qui e là le migliori sensazioni comincio a citare la lunga e conclusiva “The sea … and later the sun … and the reflection”, il brano più distintamente Canterbury Sound, con notevoli punti di avvicinamento ad Hatfield and the North, Gilgamesh e Sosft Machine, una piroettante serie di flash dal risultato pieno e indiscutibile. Splendida anche la seconda traccia “The garden of happy cows” che unisce ad aperte sezioni di fiati, particolari groove dal sapore space-jazz, tratti funky, sovrastate da sonorità di synth molto settantiano. Impossibile non citare anche l’opener “Collective Action”, vero spirito di ensamble totale e ottimo indice di tutto quello che accadrà nel disco, tra stacchi decisamente canterburyani, jazz sinfonico, tempi complessi e melodie dirette e spesso accattivanti. Più tipicamnente orientata verso un jazz di forme tradizionale è invece il blocco “Imperfect Elements in red quartz”, tre brani comprendenti anche una porzione di recitato (forse una conferenza, un convegno scientifico?), brani che presentano spunti zappiani e dei Soft Machine periodo Fifth sempre molto intriganti. Un altro centro, profondo e ben pensato, che non deluderà nessun appassionato.



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Roberto Vanali

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PLANETA IMAGINARIO Biomasa 2008 

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