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PETE & ROYCE Suffering of Tomorrow/ Days of destruction Octoichos Records / Ocean 1980/1981 (2012 Musicbazz) GRE

La dittatura militare alla fine degli anni Sessanta e agli inizi dei Settanta fu un ottimo deterrente per lo sviluppo di una scena rock greca e, come se non bastasse, con il ripristino della democrazia, sotto il partito comunista, si sviluppò un’atmosfera di ostilità e diffidenza verso tutte le forme d’arte che potessero ricollegarsi in qualche modo agli standard culturali americani. All’ombra di questo possente muro ideologico iniziò tuttavia a svilupparsi una fitta scena underground di pari passo con una crescente consapevolezza politica e sociale della popolazione che, anche attraverso l’arte, tentava di far emergere forme di pensiero diverse. Questo avveniva, soprattutto nelle grandi città, a dispetto del discredito gettato dai media e dai benpensanti. Tanta ostilità accresceva in un certo senso la coesione e la forza dei nuovi movimenti e spingeva diversi artisti a gettarsi nel carrozzone underground, rinunciando quindi ad ogni velleità mainstream, ma nonostante questo le case discografiche rimanevano chiuse per vari motivi a certe realtà che non arrivavano quasi mai alla pubblicazione di un album.
I Pete & Royce, guidati dal pittore Panagiotis “Pete” Tsiros (chitarre e voce), erano fra le poche realtà progressive a muoversi in questo scenario e furono anche i primi ad auto-prodursi, con l’esordio “Suffering of Tomorrow”, un album in Grecia. Questo album, rarissimo nella sua versione originale che ha avuto una tiratura di sole 500 copie, può essere a ragione considerato come uno dei capisaldi del Prog ellenico anche se, cosa che non stupisce affatto considerando il retroterra socio-politico in cui è stato ideato, presenta un sound molto retrodatato e fortemente ancorato al Progressive Rock di matrice britannica dei primi anni Settanta. Le sei tracce di questo album (che comprendono una suite di quindici minuti collocata in chiusura del lato B) sono intrise di psichedelia, con ampi riferimenti ai Pink Floyd, e posseggono un feeling oscuro che poggia su suoni molto ruvidi ed opachi. Vi sono anche lineamenti sinfonici bene in evidenza, soprattutto grazie all’opera tastieristica di Bill Ghinos con riferimenti a Cressida e Fantasy. Le tracce hanno un impatto abbastanza possente anche se dalla loro matrice abbastanza grezza emergono tratteggi di una delicatezza impressionante, soprattutto nelle fasi in cui le tastiere nebulose si intrecciano alla chitarra arpeggiata, come nel pezzo di apertura, la tenue ballad “Flickering Light”, dai riflessi bluesy. La title track è fra i pezzi più tirati, con i suoi aloni spacey e l’organo Hammond in evidenza mentre tutto l’album, globalmente si basa sulla creazione di atmosfere smorzate ed avvolgenti.
Il secondo album, uscito in tiratura limitatissima e sempre come auto-produzione, è più frammentato ed è composto da un numero maggiore di tracce, dieci in tutto, più brevi. Il sound si presenta per alcuni aspetti più spigoloso e nel frattempo iniziano a emergere alcune scelte timbriche più vicine agli anni Ottanta, seppure sempre innestate in un contesto che ricorda il Prog britannico alla sua radice. Gli inserti tastieristici, le accelerazioni ed i momenti elettrici sono più rappresentati e certe soluzioni appaiono davvero intriganti e particolari, come in “Am I Mistaken” in cui si percepiscono sprazzi di Genesis in versione claustrofobica e melodie alienanti e tenebrose con tastiere che per la loro opacità potrebbero ricordare quasi gli Ange. Questo è vero soprattutto per la prima parte dell’album in cui vengono sparate le cartucce migliori mentre in generale, con l’andare del disco si avverte una decisiva flessione. In alcuni casi la macchina del tempo porta la sua lancetta verso i Sessanta, come nella briosa “Who Cares” o come anche in “You Make Me Feel”, molto semplice e diretta. Vi sono momenti di atmosfera come in “Give Me The Wings To Fly” dominata dalla chitarra acustica, come pure “Dream”. Persino la title track, collocata in chiusura, seppure conservi delle delicate linee tastieristiche, appare piuttosto anonima specie se paragonata ai momenti migliori dell’album ma anche alle ballad dell’esordio discografico.
Fra alti e bassi, con tutti i loro limiti, dovuti certamente anche alle limitazioni che la band era costretta a fronteggiare, i Pete & Royce rappresentano una realtà tutta da riscoprire. Questa ristampa, realizzata anche con l’aiuto dei membri del gruppo e splendidamente confezionata con una copertina argentea laminata e in rilievo, riporta quindi alla luce due autentiche opere d’arte, conservando al meglio tutta la profondità del sound del vinile: purtroppo i master originali sono andati persi ma il produttore ha fatto sì che fossero evitate tecniche di compressione in favore di un approccio che consentisse di preservare tutte le caratteriste audio di origine. Attenzione perché questa ristampa ha una tiratura limitata, quindi approfittatene prima che questa meteora si allontani nuovamente dall’orbita terrestre!


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Jessica Attene

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