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PBII 1000 wishes autoprod. 2013 NL

Dietro questa sigla poco attraente, che sembra quasi quella di un prodotto chimico non meglio identificato, si cela il prolungamento della veterana band olandese dei Plackband, la cui biografia, non molto fortunata, inizia alla fine degli anni Settanta e vanta un unico full length nel 2002, più una raccolta di materiale vecchio, un singolo e forse qualche altra briciola. A questo punto tre membri della antica formazione si fanno avanti e propongono di modernizzare il proprio sound. I nostri eroi sono più precisamente Tom van der Meulen (batteria), Michel van Wassem (voce e tastiere) e Ronald Brautigam (chitarre) che assieme scelgono anche un monicker nuovo di zecca, PBII, ma allo stesso tempo legato a quello vecchio, come a voler indicare una versione 2.0 dei Plackband.
Un primo album, intitolato “Plastic Soup”, giunge nel 2010 con risultati non esaltanti ma evidentemente il gruppo ha ben altre mire e questa volta cerca di sparare in alto munendosi di un concept legato ad un libro, “Eric en het Land van Duizend Wensen”, appositamente scritto da Ronald van der Pol per un progetto che prevede la raccolta di fondi a favore di un ente olandese per la ricerca sul cancro in età pediatrica. I ricavi stessi del CD, che può essere acquistato assieme al libro (disponibile solo in olandese però), andranno devoluti in beneficenza. Per la realizzazione del contenuto musicale sono stati arruolati diversi musicisti che comprendono, oltre al nostro trio di base, un nuovo cantante solista, Rund Slakhorst, un nuovo bassista, Alex van Elswijk, il soprano Nathalie Mees, Steve Hackett alla chitarra, anche se in un unico brano, l’orchestra sinfonica giovanile de L’Aia e un paio di voci narranti. La storia narrata è ovviamente quella di Eric, un bambino di nove anni che si ritrova ad affrontare e vincere la sua lotta contro il cancro che viene sviluppata nell’arco di quindici canzoni per oltre un’ora di musica. Bisogna dire che il gruppo ha cercato di realizzare questo progetto al meglio delle proprie possibilità, cercando di limare i difetti del passato, compensandoli con l’arrivo di altri musicisti e curando molto la produzione ed anche il package dell’album. Si percepisce un notevole sforzo nel voler rimettere a nuovo il proprio sound puntando su un songwriting molto disteso, ricco ma non eccessivamente pomposo, privo di mosse azzardate ma costruito passo passo su sentieri sicuri e prevedibili. L’opera risulta per questo molto compatta e di qualità abbastanza uniforme e viene spezzata soltanto dai momenti in cui si sentono le due voci narranti, quella che impersona Eric e l’altra che racconta direttamente la storia. Gli elementi orchestrali intervengono sullo sfondo come potrebbero fare degli inserti tastieristici dai registri importanti e non complicano mai arrangiamenti che rimangono sempre essenziali. La voce di Rund è sicuramente un passo avanti rispetto al passato ed il suo timbro somiglia un po’ a quello di un Peter Nicholls lievemente più intonato ma con meno carattere piuttosto che a un Jon Anderson dalle tonalità più basse, come ho letto in giro. Il soprano invece interviene molto sporadicamente, solo per qualche arricchimento e niente più. Gli elementi sinfonici sono ben rappresentati, come intuibile dalla presenza di una intera orchestra ma, come ho spiegato, sono molto semplici ed il sound, seppure limpido ed arioso, ha un tocco di modernità che ricorda a tratti gli Yes di “90125” / “Union”: ascoltate per esempio i ritornelli accattivanti di “Never Old” o quelli altrettanto affabili di “Lorian”. In prevalenza le tracce hanno breve durata con due picchi, quello del pezzo di apertura di 10 minuti, “A Perfect Day”, che giunge dopo una lunga introduzione narrata che presenta anche il progetto, e la centrale “Land of 1000 Wishes”, che rappresenta quasi il cuore dell’opera, per la sua collocazione ma anche per il pathos che qui è al culmine. Il brano presenta ampie parti strumentali con vistosi elementi new prog, slanci orchestrali e anche abbellimenti vocali a cura di Nathalie Mees. Proprio i momenti strumentali sono in definitiva quelli più convincenti anche se, a mio parere, non si va oltre una piacevolezza abbastanza standardizzata. Insomma l’intento umanitario e la grandiosità del progetto finiscono col prevalere sul reale valore di un’opera sicuramente ben fatta, non priva di difettucci vari e con slanci creativi ed emotivi abbastanza contenuti.


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Jessica Attene

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