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PERSONA GRATA |
Reaching places high above |
autoprod. |
2013 |
SLK |
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Persona grata… Monicker latino appartenente in realtà ad una band slovacca che debutta con una specie di concept, dove nei tre pezzi cantati si parla di trasformazioni, di diverso tipo e qualità. I musicisti hanno apertamente dichiarato che le loro influenze vanno ricercate negli Yes, nei Dream Theater e nei Muse; la proposta del quintetto di Bratislava, in effetti, appare come un prog-metal melodico, spesso accattivante, che in diversi frangenti mostra dei punti di contatto con i sinfonismi di un certo tipo di prog-rock. Per quel che riguarda l’influenza dei Muse: è innegabile la presenza di una forte teatralità in questo esordio, ma pare comunque lontana dalla catastrofica (e studiatamente kitsch) atmosfera da “ultimi giorni di Pompei”. Questi slovacchi, al contrario, non suonano né cupi e né incombenti, bensì parecchio solari e positivi. L’iniziale “Ace”, che richiama i primi Ayreon, è forse la più scontata, anche se la voce di Martin Stravroský, che suona anche la chitarra ritmica, risulta in questo caso specifico fuori dai soliti standard, somigliando a quel tipo di rock anni ’90 che risorgeva dalle opulente ceneri degli eighties. Ben altro discorso va fatto invece per i seguenti dodici minuti abbondanti di “Edge of Insanity”, che sicuramente potranno essere apprezzati anche dagli amanti del prog tradizionale. Gli intermezzi strumentali sono indiscutibilmente “metallici”, ma fanno da continue variazioni ad una struttura dai connotati più agresti, commentati spesso dal flauto di Martin Huba, il quale si destreggia anche in tutti gli assoli di chitarra nell’intero album. Anche qui, il finale riporta alla mente un certo modo di fare rock, stavolta però diverso, sicuramente più sognante. Con i quasi tre minuti di “Istanbul” si va incontro ad un terzetto strumentale di assoluto valore: il pezzo citato è la partenza da quel gran mercato misterioso in cui è sempre stata identificata l’antica Bisanzio, per intraprendere un lungo viaggio tortuoso sulle strade di “Orient Express”. Nove minuti e mezzo che sicuramente devono ben più di qualcosa a pezzi strumentali dei ‘Theater come la semi-improvvisata “Bombay Vindaloo” o “The Dance of Eternity”. Gli amanti del genere non rimarranno delusi dai controtempi di Jan Šteňo (batteria) e Timo Strieš (basso), a cui fanno da contraltare le digressioni dei due chitarristi (flauto annesso) e le tastiere (soprattutto il pianoforte) di Adam Kuruc; elemento, quest’ultimo, che con il suo ingresso ha contribuito parecchio al songwriting del gruppo. Ma nonostante i riferimenti poco sopra citati, la composizione ha vita propria e mostra una sua originalità. Le campane che chiudono il brano annunciano l’arrivo nella stazione barocca ed echeggiante di “Venice”, conclusione rilassante e trionfale di un lungo tragitto. Si chiude con i quattordici minuti di “I am you”, tornando così al tema delle trasformazioni. L’intro di pianoforte fa passare per la mente in maniera incredibile il ritornello di “Vacanze Romane” dei Matia Bazar ed anche quando inizia il cantato la sensazione non cambia, salvo poi gettarsi nella mischia di un prog-metal in cui il piano continua a sciorinare fiumi di note. Da rimarcare la capacità di Stravroský nel cambiare impostazione vocale ed anche timbrica a seconda delle situazioni, conferendo così indiscussa varietà alle canzoni. Quest’ultimo pezzo, poi, con la sua sagace alternanza di “pieni e vuoti” sembra essere l’episodio più convincente, con fasi ritmiche e soliste che meritano un attento ascolto, in quanto si ricrea qualcosa che nella sua ridondanza può davvero far pensare ad una specie di metamorfosi schizofrenica. Un esordio che, proprio come la sua copertina, risulta assai grazioso, nonostante l’evidente magniloquenza (ed anche qui, la cover dell’album è assai indicativa). Non lunghissimo, consente a chi apprezza queste sonorità di passare un ascolto sicuramente piacevole. Vedremo se già dal prossimo album i nostri saranno in grado di dimostrare di saper fare ancora meglio.
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Michele Merenda
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