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PROJECT: PATCHWORK |
Tales from a hidden dream |
Progressive Promotion Records |
2015 |
GER |
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Dalla Germania arriva questo progetto nato dall’idea di Gerd Albers, compositore, polistrumentista e cantante che ha coinvolto, per portarlo a termine, una quarantina di musicisti e tre produttori. L’altra figura chiave di quest’album risponde al nome di Peter Koll, che si è occupato di buona parte delle registrazioni, dell’editing e anche di qualche intervento alla chitarra elettrica. Come già accennato sono davvero tanti gli elementi coinvolti e compaiono anche nomi che possono essere noti a chi segue con interesse la scena prog tedesca. Segnaliamo, tra gli altri, Kalle Wallner dei RPWL, Martin Schnella dei Flamin Row e dei Seven Steps to the Green Door, Marek Arnold (che vanta nel curriculum la presenza nei Seven Steps to the Green Door, nei Toxic Smile, nei Cyril e negli United Progressive Fraternity) e Steven Mageney dei Crystal Ball. Gerald Albers dirige in pratica il progetto, è l’autore di quasi tutti i testi e della maggior parte della musica e nel booklet è possibile leggere le sue note che illustrano il lungo lavoro di circa otto anni che ci è voluto per arrivare al risultato finale, nonché le spiegazioni del significato e della nascita delle canzoni. Si parte con “Beginnings”, una sorta di introduzione di quattro minuti, dai tratti classicheggianti con piano e tastiere d’atmosfera, con il sax che si aggiunge nel finale. La lunga “Oblivion” (oltre tredici minuti) ci fa entrare maggiormente nello spirito del lavoro con un curioso melting pot di stili variegati: già in apertura si nota lo strano accoppiamento tra chitarre acustiche ed effetti elettronici, poi in breve si vira verso un new-prog potente, con la sei corde elettrica a tratteggiare un riff molto aggressivo, buoni spunti strumentali, deviazioni sul versante metal, altre variazioni di tempo e di atmosfera e melodie vocali ariose e sognanti, specie negli interventi femminili. E se “The turning point” ci porta più vicini ai Dream Theater, ecco che la breve “Elysium” spinge sul versante classico con il suo drammatico coro epico a cappella (il brano è dedicato ad una studentessa indiana che nel 2012 subì un brutale stupro di gruppo e fu poi assassinata). “Land of hope and honour” è uno dei pezzi forti del disco: nella prima parte possiamo ascoltare una struggente ballata per chitarra e voce, con delicati interventi di flauto, nella seconda si spinge sul new-prog e diventano protagoniste le chitarre elettriche (splendido, in particolare, l’assolo di matrice floydiana di Michael Ettema). Si cambia completamente registro con “Not yet”, con ritmi veloci, basso slappato, alta carica energetica tra funky e hard-rock e gli interventi alla chitarra e al bouzouki di Yossi Sassi degli israeliani Orphaned Land, molto noti in ambito metal. Belli gli impasti elettroacustici di “Every end is a beginning”, cantata in tedesco ed incentrata sulla voce soave di Magdalena Sojka, con un refrain pop accattivante, ma molto raffinata nei suoi oltre sei minuti. C’è poi una ripresa di un tema di “Oblivion”, che viene praticamente trasformato in un pezzo orchestrale e si va a concludere con la lunga suite “Incomprehensible” (quasi diciotto minuti), che si mantiene nei classici canoni del new-prog, con forti influenze Marillion e che facilmente colpirà positivamente gli amanti del genere. “L’unione fa la forza” si dice spesso e sicuramente l’ampio dispiegamento di energie ha giovato a questa sorta di superband, che sforna un buon disco, non perfetto nelle sue divagazioni stilistiche, ma dal quale trasuda passione, professionalità e che regala lampi di classe con picchi qualitativi notevoli.
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Peppe Di Spirito
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