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PANDORA SNAIL |
War and peace |
Art Beat Music |
2015 |
RUS |
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I Pandora Snail sono stati fondati a San Pietroburgo nel 2008 e hanno registrato questo loro album d’esordio nel 2010; del perché siano passati ben 5 anni prima che giungesse ad essere pubblicato su CD, ad opera dell’etichetta Art Beat, non siamo a conoscenza. La tastierista Ulyana Gor e il chitarrista Oleg Gorgadze costituiscono il core della band, nonché i due compositori delle musiche, completata dal bassista Kirill Klyushin, dal violinista Artem Gareev e dal batterista Igor Cheridnyk. La musica dei Pandora Snail è interamente strumentale e caratterizzata da una fusion talvolta muscolare, molto eclettica, e caratterizzata da un violino onnipresente; il riferimento più diretto è ovviamente con i connazionali Lost World. Paragoni con i giapponesi KBB possono anche venire alla mente, sebbene la musica dei russi sia meno virtuosistica e veda elementi più disparati (funky, blues, hard rock…) che irrorano le 11 tracce, nonché ovviamente coi Curved Air. La tecnica strumentale dei cinque musicisti non è in discussione (la musica in Russia è una cosa seria… difficile imbattersi in musicisti inadeguati, anche tra coloro che suonino punk o simili…), così come era abbastanza scontata la presenza di richiami classici, benché questi siano molto tenui ed appena accennati. In teoria questo “War and Peace” è un concept album, incentrato su vari aspetti della tematica della guerra o su una vicenda ben precisa; essendo strumentale, come dicevo, le vicende sono solo intuibili dai titoli dei brani, ma quel che mi sento di affermare è che non abbiano niente a che vedere col capolavoro di Tolstoj cui può rimandare il titolo dell’album. I primi brani ci propongono un violino al centro della scena, contornato da belle armonie create dalle tastiere; i pezzi, pur abbastanza brevi, spaziano tra varie sezioni attraverso le quali la musica fluisce agevolmente e naturalmente, senza soffrire di gap stilistici e passando da melodie ariose, intermezzi funky, slanci dalle ritmiche più sostenute nel giro di poche battute. Sembra talvolta di ascoltare delle jam di improvvisazione e i musicisti dimostrano, come detto, una perizia tecnica invidiabile e anche un grande affiatamento. “James Pont”, la traccia n. 5, dovrebbe forse rappresentare il culmine dell’album, quella che, coi suoi 16 minuti di durata, si stagli al di sopra di tutte le altre. Dopo una prima parte concitata e dalle ritmiche mozzafiato, con la chitarra in evidenza che sembra talvolta una vespa impazzita, una improvvisa parte di piano arriva a spezzare la furia degli elementi. Il violino si unisce poco dopo… ma è una pausa effimera: le ritmiche concitate e il duello tra tastiere e chitarra riprendono di lì a poco, sviluppandosi in un brano che a tratti ha addirittura caratteristiche Prog Metal. La successiva “Mother’s Tears” giunge a calmare le acque; un bellissimo pezzo tranquillo, dalla melodia struggente e dai suoni delicati è senz’altro quel che ci vuole adesso. Si ricominciano le danze (quasi tzigane in questo caso) con la successiva “Red Rivers”; l’album prosegue quindi imperterrito, passando per il quasi-reggae di “Stones’ Names”, la funkeggiante e nervosa “Dance Under the Bullets”, la cupa e metallica “After the War”… fino alla traccia finale, costituita dagli 8 minuti di “Satori”, la mia favorita, che rappresenta il miglior modo per chiudere questo bell’album, ottimamente suonato (lo voglio rimarcare ancora) e ricco di spunti d’interesse e di idee quanto 3-4 album normali di molti altri artisti. Non tutto è ugualmente godibile, dico la verità; talvolta alcune soluzioni musicali che vengono adottate non incontrano proprio le mie preferenze ma il piacere di ascoltare il perfetto alternarsi e rincorrersi dei vari temi e i dialoghi strumentali dei musicisti ripaga anche qualcosa che non rientri pienamente nelle proprie corde.
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Alberto Nucci
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