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POCKET SIZE |
Vemood: Clearing the mirror, volume 1 |
MillHill Productions |
2016 |
SVE |
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Ecco uno di quei gruppi che hanno il potere di far perdere qualsiasi certezza. C’è da scervellarsi fin dal nome, che a volte si trova scritto “Pocketsize”, altre “Pocket Size Stockholm” e altre ancora con la sigla “The Pocket Size Sthlm”. Ma non finisce qua. Il gruppo svedese, in vista della composizione di quella che potrebbe essere una futura rock opera, mette da parte le strutture “avant” dei precedenti lavori e diviene meno rumoroso, pulendo letteralmente la propria immagine come suggerito già a partire dal titolo. “Vemood”, dal canto suo, sembra un gioco di parole tra lo svedese vemod (malinconia) e l’inglese mood (umore, stato d’animo), facendo guardare nostalgicamente agli anni ’70. Un concentrato strumentale di jazz-rock (invero più sbilanciato sul versante jazz) e hard-rock, ripercorrendo così quelle radici che tante realtà scandinave stanno da tempo mettendo a nudo. Album pubblicato sia in vinile che in cd, con entrambi i formati in sole trecento copie. Quello digitale ha un brano in più, oltre ad un particolarità che forse – in futuro – lo renderà ancora più ricercato tra i collezionisti incalliti: i titoli riportati sul retro della copertina sono scritti in ordine sbagliato. Probabilmente è stato seguito lo stesso ordine del vinile, ma nel dischetto la successione cambia. Tutto ciò – ad oggi – non è stato ravvisato da nessuno di quelli che ne hanno avuto modo di scrivere, quindi ci si chiede se questi lavori vengano ascoltati davvero, al momento di scriverci su, anche perché i nomi dei brani “incriminati” vengono chiaramente citati a fine esecuzione… Registrato in presa diretta il 4 aprile 2015 con uno sparuto pubblico all’interno dello studio d’incisione, “Vemood” diventa quindi una specie di live suonato per pochi intimi, in cui si lasciano fluire i pensieri. L’iniziale title-track si apre col basso in primo piano di Lars Elkman, la batteria quasi monotona di Fredrik Björling (ma fortunatamente non sarà sempre così), l’organo Hammond modificato di Leo Lindberg ed il sax di Kristian Brink, stranamente non riportato nelle note inviate dalla band. E per lunghi tratti dell’intero lavoro sembra proprio il sax l’elemento solista maggiormente presente, forse anche più delle calde tastiere o delle chitarre di Simon Svärd e del leader/compositore Peter Pedersen. Il brano d’apertura scorre abbastanza fluido, tendente alla svolta più convenzionale che intrapresero a suo tempo i Soft Machine, mentre “Voodoo Works” ha un sound decisamente più canterburyano, forse simile in alcuni tratti all’interpretazione che ne diede il connazionale ¬¬¬Björn J:Son Lindh con “Sissel” durante il 1973. Seguendo l’ordine corretto, “Shaving the Face of the Earth” aumenta il ritmo e grazie a “Volk und Kraut” l’atmosfera si scioglie completamente, con un andamento allegro e funky vecchio stile. Brink sempre più protagonista, seguito a moderata distanza da Lindberg, il cui lavoro somiglia a quello svolto da Joe Novello nei Niacin. Dopo la lunga e rilassata “Dancing with Dreams”, è la volta di “Quiet Future”, uno dei momenti migliori. Il sassofono appare come l’elemento solista dominante, assolutamente incisivo, fino a quando subentra la chitarra elettrica, con un assolo lungo e davvero intenso, come non si era ascoltato in tutto l’album. L’edizione in cd, si diceva, presenta un brano in più: “Freddies Exploration”. Trattasi di una jam eseguita il giorno prima con il chitarrista Fredrik Olsson, totalmente improvvisata e allo stesso tempo davvero ben riuscita. Uno stile di chiaro stampo jazz, anche perché il chitarrista in questione proviene dalla Petur Island Organ Explosion, band svedese/islandese del batterista Pétur “Island” Östlund, un notevole punto di riferimento per la musica scandinava (nato a New York, dalle origini islandesi e molto attivo proprio in Svezia). Se la prima parte di questa pubblicazione potrebbe apparire più squadrata e disciplinata, richiamando magari lo stile dei connazionali Hansson & Karlsson (oltre a ricordare “Theme One” di George Martin nella brillante versione dei Van Der Graaf Generator), la seconda è sicuramente più spigliata e di matrice internazionale. Chissà, magari seguirà un secondo volume, sfruttando uno stile analogo… Per adesso, comunque, l’esperimento sembra perfettamente riuscito.
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Michele Merenda
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