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PATCHWORK CACOPHONY Five of cups autoprod. 2016 UK

Patchwork Cacophony è in pratica lo pseudonimo del tastierista e multistrumentista briannico Ben Bell e questo “Five of Cups” è il suo secondo album. Ben si occupa della quasi totalità delle parti strumentali dell’album, oltre che delle parti cantate, con solo un paio di contributi alla chitarra su due brani, rispettivamente di Marcus Taylor e Tim Hall. L’album si sviluppa quindi su 11 tracce, le prime 4 delle quali vanno a formare la suite “Fairytale” (16 minuti circa). Il genere proposto è quello del classico Prog sinfonico, con occasionali virate pop e rock melodico, sviluppato su canzoni di durate mutevoli (a parte la suite iniziale, due altre lunghe tracce di 9 e 12 minuti e poi tutte le altre tra i 5 e i 6 minuti) ma qualità sonora e tecnica talvolta rivedibile; soliti difetti di molte one-man-band insomma, con suoni e ritmiche talvolta arrancanti che tuttavia solo in piccola parte inficiano la godibilità dell’ascolto.
La musica è spesso ricca d’atmosfera, con suoni solo in parte vintage ed ispirazione tutto sommato apprezzabile, oscillando tra Genesis, Supertramp, Yes ed altre entità degli anni ’70 del Prog… ma anche verso i Dire Straits. Talvolta i brani sono uniti senza quasi soluzione di continuità col successivo, come a voler dar l’impressione di un tutt’unico, anche se talvolta in modo forzoato. Le armonie e le atmosfere create dalle tastiere, essendo lo strumento principale di Ben, sono senz’altro il punto di forza dell’album. Il cantato, pur non risultando proprio negativo, talvolta è rivedibile e le tonalità più alte rappresentano la spina nel fianco che a momenti lo rende ben poco gradevole all’ascolto.
Assolutamente piacevole la suite iniziale, dunque, aperta dallo strumentale “Are You Sitting Comfortably?” (nessun riferimento evidente agli IQ) e che si sviluppa piacevolmente attraverso le parti successive, con belle tastiere ed atmosfere anche classicheggianti. Seguono la poppish (ma con un buon Hammond) “Choices” e la strumentale “Counting Chickens”, caratterizzata da un bel duetto tra piano e tastiere e dai connotati un po’ spacey. “Maybe” è un pezzo rock-blueseggiante cui la chitarra di Taylor dona carattere ma si tratta comunque del brano meno riuscito del lotto, anche a causa del cantato.
I 9 minuti di “Every Day” ci riportano su territori più sinfonici ed anche più apprezzabili. Un brano piacevolmente malinconico, quasi crepuscolare, senza particolari scossoni, che procede in scioltezza dall’inizio alla fine e la cui lunga parte strumentale centrale ci culla ed ipnotizza, prima che lo Hammond prenda il sopravvento.
“Chasing Rainbows”, altro pezzo rockeggiante, è un altro punto debole dell’album, con un cantato che nelle note alte conferma i suoi limiti. Fortunatamente lo strumentale “From a Spark”, interamente suonata col piano, e la conclusiva “Brand New Day”, 12 minuti di brillante e poliedrico Prog in stile 70s, risollevano le sorti di un album non certo di prima fascia ma che riserva comunque non pochi momenti di bellezza sinfonica.



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Alberto Nucci

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