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SIMON PHILLIPS' PROTOCOL 4 Phantom Recordings 2017 UK

Seguo e apprezzo (tanto) Simon Phillips fin da quando fu motore ritmico degli 801 e della band di Gordon Giltrap. Era il 1976, lui aveva 19 anni e le sue doti di drummer erano già decise e impressionanti. Ora è senza dubbio tra i professionisti più amati, ricercati e invidiati del mondo. L’esordio della sua carriera solistica, sempre comunque alternata a collaborazioni stellari, è del 1988, quando diede avvio anche alla serie “Protocol”, qui al quarto episodio. Se per il disco di esordio volle fare tutto da solo, composizione, produzione e one man band, col tempo preferì servirsi di altri musicisti professionisti e oggi lo troviamo con una ensemble di grandissimo rilievo, Greg Howe alle chitarre, Ernest Tipps al basso e Dennis Hamm alle tastiere, band che per l’occasione assume il nome stesso del progetto e quindi Protocol Band.
Dagli esordi muta anche l’indirizzo musicale, con un’evoluzione verso forme più articolate con base jazz rock, rispetto alla pop fusion del primo episodio. Resta ancora forte la matrice funk, perfetta per mettere ben in evidenza le doti di Phillips nella ricerca di groove precisi e complessi, così come li ritroviamo, ad esempio, in “Pentangle” o nella conclusiva “Azurez” brano dal lavoro ritmico davvero notevole e in cui Greg Howe diviene (e non solo qui, effettivamente) emulo di Allan Holdsworth, ripetendo, spesso molto fedelmente, alcuni schemi del grande chitarrista scomparso. Questo riprendere è presente spesso e, come dirò specificando meglio più avanti, porta ad un certo senso di già sentito e di spersonalizzazione del risultato, meno evidente nelle parti solo di tastiere, forse più versatili per propria natura e nelle quali, ricercando un po’ il suono e le scale, qualcosa di nuovo si cava comunque.
Proseguendo nell’analisi dei brani, nove in tutto e nella media di 6-7 minuti ciascuno, dobbiamo dare menzione a “Celtic Run” con una interessante ricerca sonora, qualche ricordo Weather Report e Return to Forever e un gran lavoro di tastiere nella parte centrale.
I brani seguono tutti, tranne il breve “Interlude”, lo schema un po’ classico del jazz con un gran numero di assolo a rotazione e all’interno di sequenze rigide e predeterminate, dove tutte le partiture sono rigorose e scritte e non lasciano spazio ad eventuali improvvisazioni. Probabilmente la musica di questo CD avrà un grande e divertente impatto live, qui, sinceramente, tende a ritornare un po’ troppo su sé stessa, pur lasciando intravedere notevoli idee e soluzioni armoniche sempre interessanti, come in “Passage to Angra” o nell’opener “Nimbus”, brani che possono indicare, a mo’ di riassunto, quello che sarà l’ascolto complessivo. Le considerazioni finali e generali portano inevitabilmente a pensare ad un disco che sconta una certa ripetitività e un senso frequente di déjà-vu e alla fine, seppur parzialmente, di noia. Parlo di inevitabilità perché è ormai proprio della fusion con queste matrici vivere un po’ in un vicolo cieco. È un treno che viaggia ancora spedito, ma nella solita direzione, con binari fin troppo definiti e, visti i risultati della fusion e del jazz rock degli ultimi anni, parrebbe proprio che entrambi non abbiano molte cose nuove da dire e questo appare maggiormente evidente nelle parti chitarristiche che dimostrano grandi difficoltà nell’uscire dagli schemi noti. Attenzione, il tutto non va a penalizzare il disco in maniera determinante, ma sicuramente è alla base di un problema da porre in discussione. Detto tutto, a chiudere con un giudizio sintetico, mi fermo su un ampiamente sufficiente con alcune parti più che buone, senza picchi esaltanti, ma anche senza cadute di rilievo.



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Roberto Vanali

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