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PÕHJA KONN Põhja konn autoprod. 2016 EST

Põhja Konn, in italiano “rana del nord”, è una leggendaria creatura della mitologia baltica che ha le sembianze di un drago ed è foriera di distruzione ma è anche il nome recentemente scelto da un birrificio estone emergente per designare una qualità di birra di cui ignoro sapori e fragranze. Con questo monicker particolarissimo il bassista Siim Avango, il batterista Ott Adamson, i chitarristi Kristen Kütner e Jürgen Kütner ed il cantante Valter Soosalu si sono riuniti nel 2009 esibendosi, in questa prima fase della loro vita artistica, soltanto occasionalmente. Dal 2011 l'attività del gruppo si fa più costante ma soltanto nell'autunno 2015 arriva l'occasione per realizzare il proprio debutto discografico. I Põhja Konn furono infatti invitati dall'Unione degli Scrittori Estoni, una associazione di scrittori e critici letterari, a trasporre in musica otto delle poesie della celebre poetessa estone Betti Alver in occasione del centodecimo anniversario della sua nascita e del cinquantenario della pubblicazione di "Tähetund, celebre poema scritto appunto nel 1966. Ritroviamo in questo album quattro di quelle canzoni (“Hulkuv Laev”, “Pigilind”, “Selle ilma igav kainus” e “Hulkuv laev”) alle quali si vanno poi ad aggiungere sette pezzi provenienti dal vecchio repertorio del gruppo.
Il risultato è stato per me una vera e propria sorpresa: pur trovandomi fra le mani un disco di recente pubblicazione, avrei potuto benissimo scambiarlo per un vecchio classico del Progressive Rock estone. Ispirato in modo preponderante ai primi Ruja, con sentori che ci riportano agli inizi degli anni Ottanta, e in minor misura agli In Spe, il gruppo riesce ad imbrigliare nella propria musica riferimenti ai classici britannici, con frammenti di Genesis, Yes e Gentle Giant che vengono incastonati in produzioni che conservano un'impronta rock accentuata e ruvida e trasfigurati in uno stile davvero molto particolare, illuminato da decisi spunti sinfonici e talvolta da aperture jazz e persino da riferimenti alla musica antica, soprattutto quando Kristen suona il mandolino. Le tastiere, suonate da Valter Soosalu, sono usate con molta parsimonia e a prevalere sono le parti chitarristiche, splendidamente intarsiate e con linee melodiche accattivanti e particolareggiate. Pur trattandosi di un album molto chitarristico, gli strumenti vengono impiegati in modo creativo per creare arrangiamenti ricchi e sfaccettati e mai per generare muri di suoni.
Ma procediamo con qualche esempio pratico. Appena partita, “Võitlus”, la traccia di apertura, disegnata dalla sola chitarra acustica arpeggiata, è semplice e solenne. Quando improvvisamente la musica sgorga, in modo quasi dirompente, l'effetto è di grande sorpresa nel scoprire un sound così sfaccettato, sinfonico e potente. La chitarra è ben presente e le parti tastieristiche sono graffianti ed i sentori potrebbero essere quelli dei tardi Gentle Giant. I ritmi sono ben scanditi e la musica, che fa presa immediata, termina in una mirabolante fuga disegnata con grande abilità da una chitarra elettrica che sfoggia melodie ben scolpite su un consistente sfondo tastieristico. I ghirigori di “Põhja Konn”, la traccia eponima, che hanno dei sentori di musica antica, fanno anch'essi capo idealmente alla band dei fratelli Shulman, con impressioni che velocemente si spostano verso i Genesis di “Nursery Cryme”, ma si tratta sempre di impressioni fugaci incastonate in uno stile molto personale e di grande impatto che non prescinde da influenze autoctone, come prima descritto. Le riletture del passato seno sempre molto fresche e vivaci con un effetto finale ammiccante. Gli incastri chitarristici di questo brano in particolare sono davvero interessanti e gli arrangiamenti, seppure spesso immediati, sono costruiti con grande fantasia.
La qualità complessiva dell'album è costantemente buona, con episodi forse un po' più immediati rispetto ad altri, ma con un effetto complessivo di piacevole scorrevolezza. Cito poi ancora con piacere la melodica “Ärkamine” per la sua discreta sinfonicità, con riferimenti che questa volta portano il mio cuore ai russi Avtograf nei loro abiti più belli. Ancora di gran valore per le sue sfaccettature multiple, con un basso in piena evidenza, “Ümarruut”, ancora molto chitarristica ed energica ma al contempo melodica e raffinata. Elegante e rilassata appare invece “Mängivad Pillid, Kuu on Vees”, a dimostrazione che il gruppo regge benissimo anche in situazioni meno aggrovigliate. Per finire ricordo “Ilu” per le sue preziose parti tastieristiche che come al solito si intersecano sapientemente con le sequenze di chitarra, ruvide ma aggraziate.
Peccato non poter assaporare i testi che, stando almeno ai commenti che ho potuto leggere in giro, sembrerebbero davvero epici ed evocativi. Sarebbe bello se il gruppo potesse rendere disponibili le traduzioni che mancano nel corposo booklet, redatto purtroppo solo in estone. Che questo album, così immediato, accattivante e ben strutturato, sia assolutamente interessante lo avrete capito ormai tutti se siete giunti fin qui. Non vi resta che provare con le vostre orecchie.



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Jessica Attene

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