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PHI |
Cycles |
Gentle Art Of Music |
2018 |
AUT |
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Tornano i Phi del chitarrista/cantante Markus Bratusa, giungendo al quarto album (più un EP e un live). Alla ricerca di questa ratio dorata (di cui la lettera greca assurta a moniker del gruppo ne è l’emblema) – tirata ultimamente fuori da tutti i recensori per l’ultima fatica degli austriaci –, Markus stavolta è accompagnato dall’altro chitarrista Stefan Helige, come sempre dal bassista Arthur Darnhofer-Demár e dal batterista/tastierista Nick Koch, tornato all’ovile. Una formazione che dovrebbe continuare a perseguire l’obiettivo di trovare il giusto equilibrio tra la forza del rock e l’ispirazione artistica. A quanto pare, inoltre, il povero Bratusa si sarebbe tagliato un dito a causa di un banale incidente e quindi il suo approccio allo strumento è dovuto cambiare per forza di cose! Secondo il diretto interessato, questo doloroso avvenimento lo ha poi portato a comporre e suonare in maniera più “asciutta”, applicando le idee direttamente sullo strumento e senza ulteriori sovrastrutture, giungendo finalmente all’equilibrio artistico tanto ricercato. Il post che andava molto per la maggiore nei precedenti album qui viene ulteriormente irrobustito da un trattamento “metallico” e l’iniziale “Children of the Rain” – riferita probabilmente all’immagine posta nella copertina posteriore – ha delle strofe tipo prog-metal europeo più decadente e grigio, con il ritornello però decisamente melodico, nello stile di quelle rock band che vanno per la maggiore tra gli adolescenti quando vogliono giocare a fare i ribelli. In tutto questo, nel finale la sezione ritmica si distingue per passaggi davvero arrovellati e complessi. Il basso colpisce duro su “Dystopia”, tra accordi di chitarra macinati in riff plumbei e compressi, prima di repentini cambi di atmosfera e ritmi complicati. Stessa cosa nella seguente “In the Name of Freedom”, dove i cambi di atmosfera forse sono ancora più “rarefatti”. “Amber” potrebbe essere una semi-ballad dove spesso c’è un bel po’ di rumore inframezzato ancora una volta all’ottimo lavoro della succitata sezione ritmica, con degli assoli di chitarra molto espressivi e convincenti, in questa atmosfera densa e disturbata. Il basso aggressivo è posto ancora una volta in apertura, stavolta di “Existence”, una sorta di prog-metal in cui i vecchi Dream Theater esplorano la parte più oscura di sé, chiudendo con un assolo che (molto) vagamente ricorda un Satriani parecchio cupo. La finale “Blackened Rivers” non cambia molto il contenuto dell’album, ancora una volta con mutamenti repentini d’atmosfera e poi istantanee riprese. Questo è quanto. Di sicuro, un lavoro per gli amanti del metal tendente al malinconico, con trovate “atmosferiche” e parti ritmiche altamente complesse. Alla prossima, ragazzi.
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Michele Merenda
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