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PHENOMENA Phenomena I / Phenomena II - DreamRunner / Phenomena III - Innervision Bronze / Ariola / Dino Music 1985-1987-1992 (2018 Explore Rights Management) UK

Per certi versi, gli anni ’80 furono tempi innegabilmente critici per gli appassionati di rock – a prescindere dalle sottocategorie –reduci da un’orgia di nuovi suoni durata un decennio e proiettati, se non nella minoranza dei nostalgici, almeno in una platea che quasi repentinamente li costrinse a sgomitare per emergere dal fermento delle nuove tendenze. Non è questa la sede per discutere se sia stato il punk, la disco music, la new wave o il pop edulcorato (o addirittura MTV!) a tarpare le ali ad un rapace che pareva destinato ad un volo senza requie, fatto sta che il movimento, per adattarsi ai gusti emergenti, dovette cercare in mutazioni e compromessi più o meno drastici la via per sopravvivere. Mentre lo heavy metal poté godere di un periodo d’oro proprio alla metà del decennio in questione (vedi la NWOBHM in Gran Bretagna o band come Metallica e Megadeth oltreoceano), rivisitando in chiave contemporanea le granitiche strutture di ciò che oggi definiremmo hard rock classico, stava nascendo un filone destinato a strizzare l’occhio al formato radiofonico, partendo ancora da presupposti “duri” ma stemperandoli in melodie facilmente fruibili, refrain immediatamente assimilabili e arrangiamenti ruffianamente consoni alle orecchie della nuova generazione, in cui chitarre sempre tecnicamente ineccepibili dividevano la scena con inserimenti di tastiere digitali, il tutto coronato da ugole squillanti e… acconciature esuberanti. Era nato così l’AOR, rock destinato al formato album (in contrapposizione alla riesumazione dei singoli, quasi ignorati negli anni ’70) ed orientato ad un pubblico “adulto” (per i parametri dell’epoca, ovviamente, quando l’età media degli ascoltatori era molto più bassa).
Partendo da questa premessa, spostiamoci nella Gran Bretagna del 1985, anno in cui il produttore Tom Galley, fratello del compianto chitarrista Mel la cui fama è legata alla militanza nei Trapeze e negli Whitesnake, concepisce assieme a quest’ultimo il progetto “Phenomena” le cui intenzioni iniziali includevano la fusione tra elementi musicali e grafici, sulla scia dei concept album alla vecchia maniera (citiamo il musical “War of the Worlds” di Jeff Wayne con le sue elaborate scenografie o il meno noto “The Pentateuch of the Cosmogony” di Dave Greenslade e Patrick Woodroffe… per non parlare della sinergia tra Roger Waters e Gerald Scarfe per l’iconografia di “The wall”).
Finalmente, i primi tre capitoli del progetto, quelli più notevoli per il prestigio dei partecipanti e per il successo commerciale ottenuto (il progetto fu poi riesumato nel 2006), tanto da farli oggi considerare pietre miliari dell’AOR, sono stati ristampati in edizioni CD “definitive” e rimasterizzate grazie all’acquisizione dei master da parte della Explore Rights Mgmt. che li ha resi disponibili in curatissimi digipak arricchiti da note biografiche e nuovi commenti degli autori a corredo dei brani e delle tavole grafiche, alcune delle quali inedite.
Per il primo album del progetto Phenomena, Tom Galley concepì un lavoro concettuale i cui singoli capitoli fossero basati su fenomeni sovrannaturali incentrati sulla figura della bambina (Lucy) ritratta in copertina, connessa telepaticamente con suo padre, il professor Limit, suo alleato nelle battaglie contro queste misteriose manifestazioni, ideatore di un potente computer in grado di assorbire e trasmettere energia mentale. Il disegnatore Iain Lowe fu scelto per rappresentare graficamente le singole tracce con magnifiche illustrazioni incluse in un booklet allegato al disco (riprodotte in formato ridotto anche nel CD), che nella prima stampa poteva vantare una copertina fluorescente. Altrettanto prestigiosa fu la scelta del cast degli strumentisti e dei vocalist, potendo contare su buona parte dei membri degli Whitesnake ed altri nomi illustri dell’hard rock e non solo (Deep Purple, Budgie, Rainbow ma anche Sensational Alex Harvey Band e Fairport Convention) quali Glenn Hughes (voce), Neil Murray (basso), Cozy Powell e Ted McKenna (batteria), Don Airey (tastiere), John Thomas (chitarre), Ric Sanders (violino). In fase di composizione, al collaudato team formato dai fratelli Galley, si aggiunse il tastierista Richard Bailey, anch’egli già membro di una formazione tardiva dei Trapeze, La musica contenuta, tenendo presente anche la generica descrizione introduttoria, può essere definita un rock tipicamente anni ’80 con sfumature progressive in alcuni episodi, in linea con il format radiofonico scelto e debitore certamente delle band di provenienza dei singoli artisti, così come di altri esponenti contemporanei (Europe, Styx, Journey, etc.). In un album invidiabilmente omogeneo in fatto di qualità, godibile anche a prescindere dalla storia sottesa, si distinguono brani come l’infuocatacoppia d’apertura “Kiss of fire”/”Still the night” che già mette in chiaro quanto la potente voce di Hughes (che beneficiò molto di questa partecipazione in un periodo di stanca della sua carriera) renda incisivi brani altrimenti molto diretti e lineari. Con “Dance with the devil” si introduce l’elemento folk del violino di Sanders, i cui arabeschi sono poi ripresi dalle due chitarre elettriche in armonia. Da citare anche l’atmosferica ballata “Phoenix Rising”, il duello di chitarre soliste su “Twilight zone” ed il ruolo delle tastiere di Airey in “Who’s watching you?”, con un pregevole stacco sinfonico di organo. L’album si chiude con un episodio atipico, la title track affidata al coro dei Midland Boys Singers.
L’album fu un immediato successo di critica e pubblico, così i fratelli Galley si misero subito al lavoro sul secondo capitolo della saga, che vide la luce nel 1987 come “Phenomena II – Dream Runner”. Essendo trascorsi due soli anni, gran parte dei musicisti coinvolti per l’esordio furono di nuovo disponibili; ritroviamo quindi Glenn Hughes, Neil Murray, John Thomas e Richard Bailey (in veste di coautore), ma anche nuovi protagonisti del calibro di John Wetton (all’epoca reduce dai migliori anni dell’esperienza Asia e impegnato nella collaborazione con Phil Manzanera), il compianto vocalist Ray Gillen, che fu rimpiazzo proprio di Hughes nei Black Sabbath, Max Bacon (la voce dei GTR), Scott Gorham (la chitarra dei Thin Lizzy), Leif Johansen e Michael Sturgis (entrambi session men per gli A-ha; il secondo suonerà in seguito con Asia e Wishbone Ash) e i rocker giapponesi Toshihiro Niimi e Kyoji Yamamoto. La prima traccia “Stop!” si riallaccia esattamente al sound del primo album, con un’introduzione d’organo, un refrain ben congegnato ed un’ottima prestazione da parte di Gillen che riesce a non far rimpiangere il più quotato Hughes, il tutto su ritmiche fin troppo squadrate. In “Surrender”, affidata a Glenn Hughes, si sente anche una certa influenza degli Asia, con le tastiere che reclamano un po’ più di spazio, anche se quasi costantemente relegate ad un ruolo di supporto. Il vertice del successo commerciale dei Phenomena è rappresentato da “Did it all for love”, interpretata da Wetton: qui gli Asia sono inevitabilmente evocati, e con forza; il singolo fruttò un primo posto in classifica in Brasile, cosa che sorprese lo stesso John quando durante una conferenza stampa sudamericana dei riformati Asia fu “intimato” al gruppo di inserirla in scaletta, pur appartenendo al repertorio di un’altra band! Glenn Hughes torna per “Hearts on fire”, che con le sue backing vocals e le sue chitarre veloci rappresenta un po’ l’archetipo del brano AOR. Possiamo apprezzare la timbrica particolare di Max Bacon nella frizzante “Jukebox” e nella conclusiva, delicata “It must be love”, ben orchestrata da Johansen; innegabile l’influenza dei Queen su “Double 6, 55, double 4” con un riff che la rende parente stretta della celebre “One vision”. Nei brani successivi abbiamo conferma del valore del forse sottovalutato RayGillen (i Black Sabbath ne cancellarono le parti vocali da un album ormai completo, per far posto a Tony Martin…) ma risultano forse un po’ troppo prevedibili e stereotipati. Per questo album, il concept fu un po’ più sfumato pur essendo i testi accomunati da elementi di fantascienza e pur avendo Tom Galley preparato uno storyboard per un’esperienza multimediale infine mai realizzata, con l’eccezione della copertina di Tim Eloch, in continuità con la precedente, ed il video per il singolo estratto, diretto da WilfriedRimensberger, loro manager e direttore della rivista “MetalHammer”.
Il secondo album, trascinato dal successo del singolo, ebbe un riscontro di vendite ancor maggiore, e ciò spinse Tom Galley a mettersi al lavoro già nel 1988 sul terzo capitolo “Phenomena III – Innervision”, che soffrì però di una lunga e travagliata gestazione, con ingerenze da parte dei discografici, cambiamenti di label e di studio e fu infine pubblicato solo nel 1993, probabilmente quando la scia delle passate glorie era ormai sfumata. Il concept, una storia di gangster, inseguimenti ed avventure stavolta di natura “terrena”, fu di nuovo penalizzato dalla mancata implementazione delle idee in forma concreta (anche a causa dell’intercorso avvento del formato CD e del declino delle vendite di vinile) con l’artwork originalmente concepito da Iain Lowe che vede la luce solo oggi sulla copertina della ristampa. Orfano del coinvolgimento del fratello Mel, stavolta Tom Galley sceglie di circondarsi di un numero inferiore di performers (con l’intenzione di portare finalmente il progetto in tour), con le parti vocali affidate al solo Keith Murrell (già corista di Cliff Richard e Mike Oldfield), il ritorno di Johansen alle tastiere e assurto al ruolo di coautore, le chitarre di Scott Gorham e Marius Müller, la batteria di Michael Sturgis ed il prestigioso contributo di Brian May, alla chitarra su due brani. A proposito di quest’ultima collaborazione, pare che lo stesso Freddie Mercury, anche lui con i Queen negli Olympic Studios di Londra nel 1988 per registrare “The miracle”, avesse ad un certo punto promesso di prestare la sua ugola regale ad un brano, promessa purtroppo non mantenuta. Il sound si fa forse stavolta un po’ più “americano”, pur mantenendo le caratteristiche già note; la voce del quasi sconosciuto Murrell sorprende per la perfezione formale, ma la grinta di Hughes è ben lontana. Brano di punta è senz’altro “Whatabout love”, che con i suoi versi delicati e il suo refrain corale potrebbe essere inserita in un manuale di rock melodico, con l’assolo di Brian May – a dire il vero, fin troppo breve – a svettare lì nel mezzo. Le tastiere si fanno meno timide in brani come “Into the fire” e la produzione risulta un po’ più organica, con la batteria non più piatta e metronomica come nel capitolo precedente. L’ispirazione, in compenso, pur restando a livelli encomiabili, inizia a palesare una certa riluttanza ad esplorare soluzioni che si discostino un minimo dalla formula, e se la ballata d’obbligo “A whole lot of love” con i suoi cori femminili e ancora l’emozionante chitarra di May è ancora apprezzabile nella sua compiutezza, in altri casi si inizia a subodorare qualche traccia di riempitivo o perlomeno di ripetitività.
In definitiva, la ristampa di questi tre album rappresenta un’occasione per (ri)ascoltare episodi “storici” di un genere tangenziale a quello trattato solitamente su queste pagine, ammirare performance strumentali e vocali impeccabili e magari riscoprire dei lavori analogamente liquidati troppo in fretta per la loro “sfacciata” fruibilità.



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Mauro Ranchicchio

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