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POLIS |
Weltklang |
Progresssive Promotion Records |
2020 |
GER |
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Sono arrivati al terzo album i tedeschi Polis, quel traguardo delicato in cui occorre confermare quanto fatto in precedenza ed allo stesso tempo dimostrare di esser cresciuti. La bella confezione riporta nella copertina frontale una foto del gruppo che ricorda molto la spiritualità di cui erano permeate le immagini del “Live at Pompeii” ad opera dei Pink Floyd, guardando in generale alla visione di un futuro avveniristico in cui si sarebbe potuti essere un tutt’uno con l’essenza della Natura. Qualcosa, insomma, che rammenta persino il celeberrimo musical “Jesus Christ Superstar”. Il retro, invece, è un’altra bellissima immagine che richiama l’autunno nordico, grazie a quest’albero imponente in una grande landa dai colori tendenti al marrone, in quella che di fatto diventa un’atmosfera in stile Opeth. I nostri vengono dalla parte est della Germania, più precisamente dallo Stato federale della Sassonia, e cantano nel proprio idioma come accadeva con le band dell’ex DDR (ma all’epoca non era purtroppo una scelta…), dando così all’ascoltatore che non sia di madrelingua una sensazione sicuramente originale, conferendo una sferzata di durezza alle composizioni che negli intenti guardano al periodo aureo degli anni ’70. La sala prove è stata allestita dentro una vecchia fabbrica, le cui pareti, pavimento e tetto sono stati rivestiti di legno. Per l’occasione sono stati anche usati strumenti e amplificatori assolutamente vintage, tutto affinché si ricreasse un determinato tipo di sound. Quest’ultimo è senza dubbio più vicino a quello ricreato nel precedente “Eins” (2011), che suonava decisamente più fresco, nonostante il lavoro preso in esame si sia evoluto nei contenuti formali. Guidati dalla voce di Sascha Bormann, spiccano le tastiere analogiche di Marius Leicht e le chitarre di Christoph Kästner, accompagnate dal basso di Andreas Sitting e dalla batteria di Chtistian Roscher. L’inizio delle danze è affidato a “Tropfen”, apertura solenne, le cui strofe virano verso quella specie di impostazione melodica sognante e dissonante inquadrabile nel post-rock; nel mezzo e alla fine, parti di tastiera e chitarra che riportano in maniera didascalica partiture di natura neoclassica, con quel fare un po’ ingenuo tipico delle band che proprio fra la fine degli anni ’60 e inizio ’70 tentavano di fondere la ribellione ad alto voltaggio del rock con le poetiche partiture per l’appunto di musica classica. Un fattore, questo, che può essere colto lungo la discografia della band teutonica, soprattutto nel già citato “Eins”. “Gendanken” è l’ideale continuazione del brano precedente, iniziando stavolta a calarsi maggiormente nel calderone dei primi seventies, simile ad una sorta di rilettura degli Uriah Heep per mezzo di gruppi italiani contemporanei come i Wicked Minds e i Phoenix Again, ognuno con le sue attitudini, in cui la durezza continua ad essere smussata dalla visione onirica. Un viaggio surreale che continua con “Leben”, in cui si alternano una specie di narrazione accompagnata da una melodia lenta (vengono in mente gli Arabs in Aspic) e parti cantate più acute, energiche, prima di lasciarsi andare in un cosmo psichedelico la cui origine paga dazio proprio ai vecchi Pink Floyd. Dopo la parentesi ancora più lenta di “Abendlied”, parte l’epica “Sehnsucht”, aperta da riff serrati e dal basso imperioso; il fatto è che il pezzo non si schioda molto dall’andamento inziale, anche se poi c’è una parte strumentale molto gradevole che a tratti tocca anche i connazionali Frumpy. “Gebet” è un altro rapido intermezzo, preludio a “Steig herab”, dove vi sono altri rimandi neoclassici suonati soprattutto col pianoforte, fusi poi come in un vecchio film di fantascienza a visioni di altri mondi che vorrebbero portare l’ascoltatore verso l’esaltazione. Chiude “Mantra”, che dopo quasi tre minuti porta ancora una volta nell’etere, al ritmo di quelli che sembrerebbero quasi dei tamburi di guerra. I Polis si confermano molto simpatici e il prodotto denota una forte professionalità, sia da parte del gruppo stesso che della casa discografica (e non potrebbe essere diversamente, con la PPR di mezzo), ma si ribadisce che probabilmente il meglio lo si era dato sul secondo “Eins”, in cui vi erano anche assoli maggiormente delineati.
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Michele Merenda
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