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POLYMORPHIE |
Claire Vénus |
Compagnie 4000 |
2020 |
FRA |
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Se siete alla ricerca di qualcosa di assolutamente non ordinario che stuzzichi la vostra fantasia e che valga la pena ricordare dell’anno appena trascorso (il 2020), questo disco dei Polymorphie potrebbe essere la risposta che attendevate, sempre che siate dotati di coraggio a sufficienza per buttarvi nell’ascolto di un’opera affascinante ma assolutamente non docile. Il gruppo nasce nel 2010 dalla collaborazione fra Romain Dugelay (sax baritono e tastiere) e la cantante Marine Pellegrini, entrambi legati al collettivo di Lione Grolektif al quale fanno capo anche altre band come PoiL, Chromb e Ukandanz. Come risultato di un lavoro di ricerca riguardante le interconnessioni fra musica e poesia nasce nel 2011 un primo album, “Voix”, basato in buona parte su composizioni di Nick Cave. A questo disco fa seguito, nel 2014, un’opera più ambiziosa, “Cellule”, un concept creato per un sestetto (due tastiere, voce, chitarra baritono, batteria e due sax alti) che indaga il mondo delle carceri, basato sui versi di celebri poeti scritti durante la detenzione. Con “Claire Vénus” tornano ancora i ricchi riferimenti letterari incentrati questa volta su tematiche amorose. Lo stesso Dugelay, autore della musica, ci racconta che l’album si basa su una selezione di dieci poesie che nel loro complesso danno vita ad un’allegoria amorosa vista nelle sue molteplici sfaccettature e fatta di passione, di desiderio ma anche di sentimenti distruttivi, come la gelosia, che sono alla base di incomprensioni, liti e ricatti. I testi appartengono a Louise Labé, MA Genest, Pablo Neruda, Léonard Cohen, Marceline Desbordes Valmore, Pier Paolo Pasolini, Anna de Nouailles, Eugene Guillevic, Paul Eluard e Jean de Sponde, come si può intuire dai titoli delle canzoni che riportano i nomi di battesimo di questi stessi autori. Questi versi in lingua originale (francese, inglese e italiano, nel caso di Paolini), sono intervallati da alcuni estratti della corrispondenza fra Anaïs Nin e Henri Miller (pubblicati in italiano col titolo “Storia di una passione”), recitati con intensa partecipazione dalla seducente voce di Marine. Il disco, registrato in appena due giorni in studio e in presa diretta, è qualcosa di travolgente e di ispirato che scaturisce con irruenza ed emotività grazie ad una band compatta ed affiata che attualmente comprende, oltre alla coppia già segnalata, anche Simon Girard al trombone, Damien Cluzel degli Ukandanz alla chitarra e Léo Dumont dei Kouma alla batteria. Paragoni con certi nomi della storica avanguardia francese non sono assolutamente fuori luogo e penso ai Lard Free, ai Mahjun o ai Ma Banlieue Flasque, con intersezioni fra jazz, rock, RIO ed un pizzico di Zeuhl. Istinto e poesia sono un tutt’uno in una combinazione incandescente di suoni, distorsioni, e scampoli di morbosa melodia. “Louise”, parliamo della traccia di apertura, travolge subito l’ascoltatore con le sue sonorità oscure, i ritmi sconnessi, gli spasmi della chitarra ed il borbottio del trombone. L’asprezza dei suoni distorti viene addolcita dalla voce recitante di Marine, rassegnata e seducente in un elettrizzante gioco di contrasti. Nella sua irriverenza, “MA”, che nasce come un tronfio ballo lento, disegnato in modo goffo dal trombone, per poi spingersi alla deriva lungo sentieri free, mi ricorda alcune esternazioni musicali dei Komintern. Talvolta sono le tonalità più morbide a prevalere con stati d’animo dimessi e malinconici (“Leonard”), altre volte la musica si fa rabbiosa e dirompente con elementi di caos organizzato (“Pablo”), il canto che si trasforma in declamazione di slogan con ritmi sconnessi che sembrano scaturire dalla percussione violenta di lamiere e ciarpame di metallo sul cui trambusto rantolano i fiati (“Marceline”). Da questa capacità di dosare suoni, rumori e silenzi nascono le ossessioni sonore racchiuse in questo album viscerale, fatto di istinti e sentimenti lasciati affiorare in modo spontaneo ed esplosivo. L’impatto di questi brani non è semplice ma l’album scorre in modo dinamico nelle sue continue contraddizioni, nei suoi incastri e contrasti. Così “Anna” appare particolarmente rumorosa e disturbante, seppure intrisa di poesia fino al midollo e gli fa da contraltare la successiva “Guillevic”, eterea, stralunata e sinuosa con le sue inflessioni che sono quelle di un jazz rock ruvido e ribelle, che si muove in una dimensione dove tutto è dilatato e deforme. Questa tempesta di rumori, di suoni e versi poetici finisce col travolgere l’ascoltatore che viene sommerso con prepotenza da emozioni che prendono vita subito nelle orecchie. L’approccio a quest’opera non è affatto semplice ma i Polymorphie riusciranno in qualche modo a comunicare qualcosa di forte, nel bene o nel male, anche ai più dubbiosi. Una tempesta non può passare senza lasciare tracce, questo è poco ma sicuro.
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Jessica Attene
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