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POLYFEEN |
Den sidste vilde |
Kommun2 |
2020 |
DAN |
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Il momento più alto della carriera dei Polyfeen deve essere stato nel 1972, quando presero parte al celebre Roskilde Festival, dividendo la scena con Alrune Rod, Gasolin e Rainbow. Senza poter contare sulla pubblicazione del loro materiale, Erik Hansen (voce) Finn Sørensen (chitarra) Per Hugo Rotbøll Nielsen (organo) Anders Olsen (basso) e Palle Bang Stjernholm Nielsen (batteria) posero fine all’esistenza del gruppo già nel 1973 e vennero presto dimenticati. Soltanto nel 2001 l’Orpheus Record pubblicò un album intitolato “Langt ude i skoven” contenente 9 tracce dal vivo risalenti proprio al 1972, incise con una qualità da bootleg, che ci restituivano l’immagine di una band molto ruvida ed energica, dedita ad una sorta di istintivo hard rock psichedelico con venature Prog. Dopo anni di assenza dalle scene tre dei membri originali si unirono a nuovi musicisti per ridare vita ad alcune delle vecchie canzoni e per registrare nuovo materiale. Il risultato è racchiuso nell’album “Silhouetter”, pubblicato nel 2017 dall’etichetta svedese Transubstans. Con qualche rimaneggiamento di organico, che vede il gruppo centrato attorno alle figure dei due attuali leader, il cantante e bassista Michael Stanley ed il virtuoso dell’organo Hammond Per "Hugo" Rotbøll, i Polyfeen, con l’aggiunta del chitarrista Torsten Lefmann e del batterista Karsten (Mons) Mansa, tornano con questo album contenente 6 nuove canzoni. La formula scelta è molto ruvida e proiettata con forza verso il passato grazie ad uno stile piuttosto diretto e a un sound polveroso che offre l’immagine di come potesse apparire il gruppo agli albori della propria carriera. Non c’è spazio per limature, sovraincisioni, cose tropo elaborate, tutto sembra registrato in presa diretta sotto l’impulso del momento. In realtà le parti organistiche non sono troppo esuberanti, anche se certe colorazioni riscaldano al punto giusto suoni ed atmosfere. L’incipit, che è proprio la title track, una ballad dalle venature blues, si apre con la chitarra acustica e l’organo si proietta subito sullo sfondo, riemergendo di quando in quando con assoli discreti e ben calibrati. La voce di Stanley non è aggraziata ma in definitiva adeguata al tiro dei brani che hanno comunque una componente strumentale predominante. I connazionali Alrune Rod, Culpeper’s Orchard e Day Of Phoenix possono essere chiamati benissimo in causa come termini di paragone anche se il valore complessivo di questa musica non raggiunge, a conti fatti, quello dei più fortunati colleghi. I momenti gradevoli non faticano ad arrivare e già la curiosa “Disen”, che mescola vaghe reminescenze dei primi anni Ottanta con elementi hard blues caustici, appare di sicuro intrattenimento. “I Hope You’re Happy” offre momenti sinfonici più decisi, con alcune suggestioni che ci riportano curiosamente ai Queen più datati e ai Procol Harum. Sicuramente “Mental Barrier” spicca per le sue chitarre ombrose e distorte che induriscono e incupiscono il sound ma ad essere ricordata di più secondo me sarà la traccia di chiusura, “Ilden”, potente e graffiante, talvolta persino Sabbathiana, ed imbibita di densi fumi psichedelici, con interessanti variazioni folk e nuance sinfoniche. Per accrescere la sensazione di un ascolto autenticamente datato potreste approfittare della limitatissima edizione in vinile che vi potrà dare anche l’opportunità di ammirare meglio la coloratissima copertina firmata dal controverso artista danese Kristian Hornsleth, ricordato per aver pagato in bestiame gli abitanti di un villaggio ugandese affinché cambiassero tutti legalmente il loro nome in Hornsleth.
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Jessica Attene
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