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PROAGE |
4.wymiar |
autoprod. |
2021 |
POL |
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Questo gruppo polacco ha una storia abbastanza complessa. La prima “incarnazione” risale addirittura al 1985 sotto altro nome, per poi andarsene ognuno seguendo la propria strada; nel 2008 si rimettono insieme alcuni elementi a nome ProAge, cambiando via via formazione fino al 2016, giungendo oggi al terzo album. Qual era il nome precedente? Czwarty Wymia, cioè “Quarta Dimensione, corrispondente al titolo di quest’ultimo lavoro. Sei elementi, che a loro volta danno alle stampe un dischetto con sei tracce (singolare coincidenza…), andando verso l’essenza di quello che vorrebbe essere un sound molto ampio e cangiante. La band oscilla tra il neo-prog più duro ed il prog-metal, senza però disdegnare puntate decise verso altri territori musicali come il post-rock, il pop e persino un certo tipo di new-wave abbastanza dardeggiante. “System” parte dura e con un giro di synth arabeggiante, seguita dal testo inizialmente monosillabico cantato da Mariusz Filosek. La ritmica, durante il ritornello, è molto ossessiva e monotona, diventando poi più articolata durante le strofe. Sono comunque i sintetizzatori di Krzysztof Walczyk a dare varietà ad una composizione che rischierebbe di essere troppo “monolitica”, anche se il finale registra decisamente una maggiore apertura. Dopo un inizio quasi da film, le strofe di “W Cieniu Izolacji” sembrano appartenere ad una specie di pop fuoriuscito dalla seconda metà degli anni ’70, eseguito a suo tempo anche dal nostro Franco Battiato; il refrain diventa invece più sostenuto, seguendo la linea della succitata introduzione. È sempre Walczyk a tenere banco, con l’organo che lega i ritornelli e poi un finale ai sintetizzatori che si interrompe di colpo, facendo finire abbastanza brevemente tutta la composizione. Beh, ma il prog dove sarebbe? Fino a questo punto, infatti, se ne è sentito davvero poco (per volere usare un eufemismo). Arriva con gli otto minuti di “Człowiek Z Wysokiego Zamku”, sorretti dal sax di Mariusz Rutka in punti cruciali della composizione, come l’inizio sinuoso che lascia il posto immediatamente a un incedere oscuro scandito dal basso vibrante di Roman Simiński, su cui il batterista Bogdan Mikrut esibisce interventi e controtempi davvero interessanti. Si tratta ancora di un ritorno ad atmosfere di metà anni ’70, stavolta vicine a quelle delle band provenienti dalla ex-DDR. In tutto ciò vengono inseriti dei riverberi di chitarra tipicamente dark-wave che conferiscono un senso maggiore di mistero in stile pellicola vintage proprio dell’Est europeo. Non può certo mancare il lavoro di Walczyk, che a un certo punto compare con i suoi inseparabili sintetizzatori e arricchisce ancor di più il contesto. Si parlava del sassofono nei punti cruciali… Torna infatti per il finale, conferendo un senso di straniamento alla conclusione dei ritmi precedenti. “Sensorium” è un momento di quiete pastorale ed intimista (è sempre però presente una certa durezza di fondo), dove Folosek canta accompagnato dalla chitarra di Sławomir Jelonek e dal flauto dell’ospite Małgosia Łydka, presente anche sul precedente “MPD”. È il preludio a “4th Dimension”, title-track qui trascritta e cantata in inglese, l’unico episodio dei sei presenti; una suite che sfiora la mezzora e divisa in tre parti, il vero pezzo forte dell’intera uscita, in cui si può davvero parlare di prog o art-rock che dir si voglia. Primo movimento: introduzione cupa di basso e sintetizzatori siderali, seguiti subito dall’impostazione vocale che fa quasi anch’essa da strumento introduttivo. Finalmente la chitarra fa sentire chiaramente la sua presenza, anche se sono sempre le tastiere di Walczyk ad essere protagoniste. Il seguito della prima parte è molto in stile rock dell’Est, essenziale e allo stesso tempo sognante, grazie anche al sassofono che molto discretamente segue le parti cantate. Quest’ultime, nonostante il testo sia in inglese, sembrano recitate ancora in polacco (il dubbio, vista la pronuncia, francamente persiste). La chitarra di Jelonex, muovendosi sempre su tappeti tastieristici, si segnala in versione acustica e classica, suonando note simil-iberiche. Poi, la chitarra elettrica si mette a suonare note su note, seguita da un bell’intervento del sassofonista Mariusz Rutka. La pronuncia finale del testo in inglese diviene stavolta più limpida e da partiture che potevano guardare un po’ ai Gentle Giant e ai King Crimson (in salsa però più cupa e allo stesso tempo più melodica) si passa decisamente ai Pink Floyd “atmosferici”. È l’anticamera della seconda sezione, che invece passa poi a un drumming più indiavolato e l’abbinamento con l’organo Hammond si rifà alle vecchie band tedesche dei seventies, compresi gli interventi ruspanti della chitarra. Ci si è talmente immedesimati in quelle vecchie atmosfere… che Bogdan Mikrut si lascia anche andare ad un assolo di batteria, prima che organo, sax e chitarra sfornino a loro volta tutta una serie di assoli. Quando si torna a cantare, ricompare il flauto per ricreare il classico alone fiabesco, viatico per un’esecuzione che cangia nel new-prog romantico, spezzato però dalla voce uscita quasi da una radio militare, su un pianoforte che rende ancora più irreale il narrato. Ed ecco di colpo il terzo movimento, decisamente tendente al prog-metal, allungato sempre col solito sottogenere prog esploso negli eighties. Nelle parti strettamente strumentali si potrebbe pensare ai Dream Theater dell’era Derek Sherinian, prima di tornare al leit-motiv principale, in polacco e sorretto brillantemente dal sassofono, terminando nuovamente col testo in inglese. Si chiude con “Wyspa Czasu”, in cui ci si è assestati definitivamente nel neo-prog con risvolti più “tecnologici”. Un pezzo ben impostato e deciso, che si avvale della presenza dell’altro ospite Janek Mitoraj degli Osada Vida, il quale dà un ottimo contributo personale con le sue sei corde. Alla fine, dopo un paio di ascolti, la band polacca svolge un compito più che discreto, dimostrando di possedere una precisa identità, nonostante la proposta decisamente multiforme. Qui c’è davvero qualcosa di serio e marziale, che soprattutto nelle parti cantate impedisce di far fuoriuscire vibrazioni che siano “luminose”. Questo però viene contrastato da alcuni inserimenti strumentali, creando un’ambivalenza che risulta comunque interessante. Il consiglio, per il futuro, è di concentrarsi maggiormente sull’aspetto progressivo, perché la strada intrapresa può risultare decisamente interessante.
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Michele Merenda
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