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REAL ILLUSION Impheria Andromeda Relix 2015 ITA

Altra band veronese messa sotto contratto dalla Andromeda Relix, casa discografica nata dalle ceneri della fanzine “Andromeda” (dodici numeri, dal 1996 al 2001) che da alcuni anni si propone come vetrina di lancio per gruppi promettenti – oltre ad effettuare alcune ristampe –, con la speranza che i diretti interessati possano subito dopo spiccare il volo e quindi raggiungere mete ancora più importanti. La compagine scaligera dei Real Illusion è stata fondata nel 2000 dal tastierista Stefano Negro e dal chitarrista Luca Pegoraro. Soliti cambi di formazione, gavetta a suon di cover dei più svariati generi, fino ad assoldare definitivamente il cantante Manuel Fabi. Con l’entrata del bassista Luigi Di Carlo e del batterista Marco Beso durante l’anno 2010, il cerchio era finalmente chiuso. Dopo aver composto quello che viene ritenuto il proprio singolo apripista, “Burning”, Frank Andiver decide di far registrare loro le tracce dell’album agli Zenith Studio, per poi essere finalmente pubblicati dalla label che ha puntato con decisione gli occhi sulla relativa proposta. Molto hard-rock anni ’80, soprattutto a stelle a strisce, che guarda soprattutto a illustri colleghi del periodo come Hardline, Bad English (entrambe band di Neal Schon, peraltro), Warrant e Dokken. Proprio il famoso chitarrista di quest’ultimi, George Lynch, sembra un nume titolare di Pegoraro, il quale di certo non si risparmia negli assoli.
Il brano inziale, che porta il medesimo nome del gruppo, è forse quello più vicino al prog-metal e ai suoi controtempi, anche se la componente da hard-rock melodico è predominante, con organo Hammond in evidenza, chitarre doppiate in botta e risposta ed il cantato convincente sui toni medio-bassi, salvo poi distinguersi per l’acuto finale. La seguente “Master of the twilight” attacca con delle orchestrazioni sintetizzate, rimandando nel suo insieme ad altre realtà anni ’80 tipo i Survivor. Si continua con “Wandering”, tra il mid-tempo e l’anthem, contraddistinto dal pianoforte a cui segue un assolo di synth; tutto il pezzo, comunque, risulta imperniato sul neoclassicismo in fase solista, rimandando sempre e comunque al periodo musicale di cui sopra.
Come da copione, è tempo della classica ballatona, che qui prende il nome di “Another day another stone” (anche il nome si confà…), in cui i riferimenti da citare sarebbero davvero troppi, così tanti che appena viene in mente un nome… questi sfugge perché un altro ne prende subito il posto; il tutto però risulta gradevole e sicuramente piacerà per la sua immediatezza. Tornando alla durezza, “Out of my life” è il pezzo col classico riff da “belli che fanno i duri”, ancora una volta con chitarre doppiate, un bell’assolo che non si basa solo sulla velocità ma che dopo la gran corsa porta anche ad una melodia di ampio respiro. Interessante “Living after death”, che prevede un duetto di romantica energia con l’ospite Jessica Passilongo dietro ai microfoni.
“My faded angel” non aggiunge nulla di nuovo, si può quindi passare a quel “Burning” scelto a suo tempo come singolo: un pezzo per lunghi tratti da corsa notturna in motocicletta, con assoli che scaldano il turbo e che dimostrano come sia stata azzeccata la mossa (auto)promozionale. Si conclude con la title-track, altro anthem, stavolta un inno decisamente più “radicale”, che però – anche qui – non aggiunge nulla di più rispetto a quanto ascoltato.
Questo esordio, in cui si parla dello smarrimento e delle insicurezze dei tempi odierni, di prog non ha praticamente nulla, nemmeno se inteso in chiave metal. È un album che all’ascolto fa scaturire una decisa simpatia, proponendo con un sound attuale quella musica che riascoltata a distanza di tempo poteva apparire pacchiana e piuttosto incisa male, intrisa com’era di quell’aria “plasticosa” tipica di un’epoca abbastanza posticcia. Peraltro, qui vi è comunque un’attitudine decisamente seria, quindi più vicina ad una certa filosofia musicale tipicamente europea. Ci sarebbe da rendere i suoni più decisi, più “rombanti”, proprio come fatto dagli stessi Hardline con il loro “Double eclipse” (1992). I margini ci sono. Ma non certo nell’ambito dei confini progressivi, nonostante siano molto ampi per definizione.



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Michele Merenda

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