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YUVAL RON Somewhere in this universe, somebody hits a drum Wrong Notes Music 2019 GER

Una specie di fusion molto particolare e non certo semplice da usufruire, quella ad opera del chitarrista israeliano-tedesco Yuval Ron (da non confondere con un altro artista omonimo, che però compone musica sacra). Musica per lo più strumentale molto complessa, che contiene parecchi elementi, non caso definita da qualcuno anche come “prog cinematografico” (curiosamente, il suo omonimo è stato pluripremiato proprio per la composizione di colonne sonore). Le partiture sono accompagnate da molti effetti, che accompagnano i brani in schemi musicali dilatati e che allo stesso tempo sottolineano particolari situazioni. C’è qualcosa di orchestrale nelle composizioni di questo artista, pur abbinando curiosamente un chitarrismo in stile Allan Holdsworth con delle sonorità a volte tipo videogioco fantascientifico anni ’80! Proprio per questo l’ascolto non è inizialmente dei più facili e non certo dei più lineari. Giunti al terzo album, questo “Somewhere…” si mostra invero più simile all’esordio “Futuristic worlds under construction” (2004). Le evoluzioni chitarristiche sono spalleggiate dalla tecnica del tastierista Matt Paull e da una sezione ritmica assolutamente pregevole: il bassista italiano Roberto Badoglio ed il famoso batterista tedesco Marco Minnemann (oltre che da solista, anche con varie compagini come The Aristocratics e Steven Wilson).
A proposito di stranezze, l’iniziale title-track rappresenta l’ideale biglietto da visita: una specie di introduzione dai ritmi marziali che accompagnano dei vocalizzi acuti nello stile di Pat Metheny, a cui subentra questo viaggio nello spazio scandito dai passaggi di tastiera che ricreano i suoni dei videogiochi di cui sopra. Poi, i lunghi fraseggi di chitarra e di tastiera su ritmica tipicamente jazz-rock. Ma aspettatevi il ritorno dei suoni da giochino elettronico (odiosi, davvero!) e anche di quella che vorrebbe essere un’atmosfera epica da viaggio nel cosmo, che termina con quei colpi di tamburo di cui parla il titolo dell’album, percossi da qualcuno… da qualche parte nell’universo. Un approccio simile anche nella successiva “Gravitation Lensing”; nella seconda parte vi sono degli ottimi assoli basati su una fluidissima tecnica del legato, a cui però fa seguito una soluzione musicale ossessiva che finisce per somigliare più che vagamente a “Lark’s Tongue in Aspic” dei King Crimson. Molto interessanti gli otto minuti abbondanti di “Kuiper Belt” e il loro quieto vagare nel buio cosmico, tipo una sonda che vola con i suoi tempi verso luoghi ancora inesplorati. Matt Paull la fa da padrone per buona parte del brano, mentre basso e batteria vanno pian piano aumentando di giri. È proprio Badoglio a fare da tratto d’unione agli assoli finali di Ron, producendosi poco prima in intricate fasi solistiche di basso.
Gli ultimi tre pezzi non scendono sotto i nove minuti e “Wifi in Emerald City” parte più aggressiva rispetto agli standard precedenti. Dopo tre minuti di diavolerie varie, partono assoli tanto tecnici quanto incisivi, richiedendo al duo Badoglio-Minnemann gli straordinari. Poi, però, comincia a condensarsi un’atmosfera infernale, come se si stesse materializzando un incubo infuocato sull’astronave, che dura anche troppo a lungo, prima degli istanti finali al fulmicotone. Ci si rasserena con i quasi dieci minuti di “The Discovery Of Phoebe”, dedicata alla memoria proprio di Allan Hollsworth, i cui vocalizzi che si snodano nell’etere sono di Dorin Mandelbrum. Passaggi intricati all’interno dei quali si intrecciano chitarra e basso in stile assolutamente Zappiano, che echeggiano assieme a risonanze atte a ricreare la vastità universale. Poi, il tributo a Holdsworth diventa decisamente più palese. Chiude “I Believe In Asronauts”, più giocosa e con Yuval Ron davvero in grande spolvero. Ci sono molte pause, riempite di volta in volta dai soliti effetti da videogame, da passaggi di basso… o anche da assolutamente nulla, con incedere tipo epicità ispanica inserita in un contesto da cinema di fantascienza fatto in casa. L’ennesima parte effettistica, con controtempi ritmici, si dimostra però troppo lunga.
Se il regista danese Nicolas Refn non fosse stato così incline a pellicole violente, si sarebbe potuto dire che i contenuti di questo album sarebbero potuti andare bene per una sua eventuale puntata nella fantascienza: ci sono infatti momenti di attesa, a volte anche snervante, senso di sospeso e di rarefazione, impennate verso qualcosa di assolutamente avvincente, cadute nel caos e finali che (forse) può capire solo l’autore. Ecco, l’ultima uscita di Yuval Ron è un po’ tutto questo. Se poi unite il fatto che oltre ad essere un musicista è anche un ingegnere programmatore di software, il quadro è davvero completo.



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Michele Merenda

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