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RED SAND Crush the seed autoprod. 2020 CAN

Molta acqua è passata sotto i ponti da quando la creatura di Simon Caron esordì col suo primo album, molto bello (senza esagerare né usare termini spropositati, ovviamente). Era il 2004 e da allora la band si è sempre più ristretta attorno alla figura di Caron, perdendo da subito l’apporto di Stéphane Desbiens, che tanto aveva contribuito alla buona riuscita di “Mirror of Insanity” e via via vedendo avvicendarsi, album dopo album, i pochi collaboratori che lo affiancavano. Anche la qualità musicale spesso è stata solo un pallido riflesso di quel primo album, orientandosi comunque sempre su un new Prog con richiami marillioniani più o meno accentuati.
Questo nono lavoro vede innanzi tutto il ritorno del batterista Perry Angelillo, presente nei primi cinque lavori dei Red Sand, e la conferma del vocalist Stéphane Dorval, presente già da alcuni dischi in organico. Il resto della strumentazione è appunto in mano a Caron.
In quest’album a quanto pare la band vuole esplorare territori decisamente più floydiani; dopo l’avvio d’atmosfera affidato a “Crush the seed part 1”, la lunga “Were They Born Like That” gioca a fare il verso a “Shine on You Crazy Diamond”… in una maniera, oserei dire, davvero disturbante se non addirittura irritante quando il notissimo arpeggio con le 4 note di quel brano viene sbagliato (volutamente) di continuo… e poi via anche con le successive sezioni della canzone, cantato compreso. Sì, OK… il brano, nella sua intierezza è pure bello, ma non è proprio possibile estraniarsi dal continuo rimando al pezzo più famoso e devo dire che l’esperienza di ascolto è piuttosto estenuante.
Fortunatamente gli altri brani, pur mantenendo sonorità e tendenze floydiane, si spingono decisamente meno lontano nell’assomigliare ai modelli, limitando il supplizio (termine esagerato, OK… ma non eccessivamente) ai quasi 11 minuti di questo brano; la parte 2 della title track, altrettanto d’atmosfera, ci conduce fuori da questa situazione, con una traccia come “Human Claim” che si situa in territori a metà strada tra un bel Prog anni ’70 e sonorità alla “Animals”.
La terza parte della title track è decisamente più articolata delle precedenti e prelude alla seconda parte dell’album in cui andiamo a discostarci leggermente dall’universo floydiano. “Fight for US” ha connotati melodici ed è piuttosto lineare, preludendo ai 17 minuti di “Woman”, decisamente più interessante e con uno sviluppo progressivo in crescendo appassionante e trascinante. Quando la drammaticità raggiunge il climax, guidata da un entusiasmante assolo di chitarra, ci rendiamo però conto di essere solo a metà della traccia. La seconda parte della stessa si dipana in modo molto sornione, attraverso una ritmica costante; la musica non torna a salire se non sul finale, in modo molto controllato, terminando il brano in modo molto lirico ed appassionato.
Siamo al finale dell’album: “Dust and Hope”, come “Fight for US”, è assente dalla versione in vinile ed è anche abbastanza simile a questa. E’ da segnalare per il suo carattere gilmouriano, accentuato dall’assolo di chitarra.
L’ennesimo banale album dei Red Sand, quindi? Sì e no. Benché non ci troviamo certo di fronte a un lavoro di alto livello e malgrado, soprattutto, i riferimenti che richiamano fin troppo le atmosfere floydiane, quest’album è comunque più che dignitoso e senza dubbio piuttosto apprezzabile.



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Alberto Nucci

Collegamenti ad altre recensioni

RED SAND Mirror of insanity 2004 
RED SAND Gentry 2005 
RED SAND Human trafficking 2007 

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