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ROBIN & THE WOODS Moonfall autoprod. 2021 FRA

Incontratisi al conservatorio di Bordeaux, il chitarrista Robin Jolivet ed il sassofonista Jérôme Masco decidono di formare una band in cui poter convogliare le loro passioni per il jazz e la fusion e per il Progressive Rock. Vengono coinvolti di lì a poco altri musicisti entusiasti per l’idea (Alexandre Aguilera - flauto, Alexis Cadeillan - basso, Nicolas Girardi - batteria) e alcuni anni dopo, nell’aprile del 2021, il gruppo pubblica il suo primo lavoro di lunga durata, facendo seguito ad un EP uscito nel 2019 e scegliendo la strada dell’autoproduzione.
L’album è quindi il delizioso risultato dell’unione di due passioni musicali e mostra, nelle sue 9 tracce, elementi riconoscibili mutuati da band storiche quali King Crimson e Pink Floyd che si innestano in un’intelaiatura decisamente debitrice di certo jazz contemporaneo, con numerosi riferimenti a Pat Metheny, John Hollenbeck e i Claudia Quintet, Donny McCaslin.
Vista l’estrazione e la formazione musicale dei musicisti, non è sorprendente che la padronanza strumentale del quintetto sia di alto livello. Nel corso dei 53 minuti di durata dell’album andiamo incontro a brani dai connotati più rock e a momenti in cui siamo maggiormente entro i confini del jazz; l’assenza delle tastiere passa quasi inosservata, grazie alle notevoli parti di sax e flauto che, assieme, riescono a donare un sapore piacevole alle note eleganti che pervadono le composizioni.
L’avvio è quasi in sordina con “Collapse”, brano soft, quasi lounge, in cui cominciamo ad apprezzare una chitarra decisamente alla Metheny, che sfocia dolcemente nella successiva “Cello Man” in cui inizialmente sono i fiati a dettare la linea; poi la chitarra comincia a farsi più distorta, in un crescendo che si fa appassionante e che si districa tra melodie complesse ed interessanti riff. La successiva “Dark Water Falls” era già presente, in una versione più lunga, nell’EP di due anni prima e stavolta la chitarra è arpeggiata, alternandosi e contrappuntando le melodie dettate ancora dai fiati. Brano che si sviluppa poi in crescendo, non senza riferimenti crimsoniani, con vari stop & go.
La mini-suite “Fractales”, che si sviluppa su tre tracce (comunque indipendenti tra loro), è una extravaganza di momenti musicali complessi, ma comunque sempre con melodie piuttosto fruibili, senza particolari accenni di avanguardia né tanto meno di free-jazz, che vanno semplicemente ascoltati e goduti. Le uniche note che concedono qualcosa a sperimentazioni ed avanguardie sono contenute nella penultima traccia “Eyjafjallajökull”, omaggio all’omonimo vulcano islandese la cui eruzione di alcuni anni fa mise in crisi il trasporto aereo nord europeo. L’album si conclude con la title track, la più lunga del gruppo (8 minuti), ben strutturata e orientata su un jazz-prog di stampo seventies non privo di momenti più tirati e aggressivi.
Si tratta di un album (interamente strumentale, se non si fosse capito) che mi ha affascinato da subito e che ritengo assolutamente delizioso nel suo eclettismo jazz.



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Alberto Nucci

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