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SONIQ CIRCUS Soniq circus Progress Records 2007 SVE

Scoprire che una band composta di musicisti giovani come i cinque ragazzi dei Soniq Circus sia dedita ad un progressive rock non diluito, personale, ben composto e ancor meglio registrato fa sempre piacere, soprattutto in un’epoca in cui il sinfonico è spesso trascurato in favore di contaminazioni metalliche. Non che la band - fondata da Marcus Enochsson a Lund all’alba del millennio - disdegni cavalcate cariche d’energia o addirittura qualche liberatorio sfogo percussionistico a base di doppio pedale, ma si carpisce già dalle prime note dell’Overture l’ispirazione “classica”, sia pur mediata da un gusto moderno che rende l’album niente affatto anacronistico.
Ma andiamo per ordine. La band giunge solo ora all’esordio discografico “pieno” dopo la pubblicazione tra il 2004 e il 2006 di un paio di due demo-album destinati all’autopromozione (“The problem” e “Still not making love”) con il nome di Telepilot 380, poi abbreviato a TP3 e svariati cambiamenti di line-up, la cui costante resta il fondatore e chitarrista Enochsson, autore anche di tutti i testi e le musiche.
Perché quest’album è in grado di distaccarsi dalla media? Sicuramente per la freschezza e l’entusiasmo che emanano le sette tracce, per la voce personalissima di Calle Lennartsson (asso nella manica della band?), perfetta per il genere proposto, per le stesse melodie vocali facilmente memorizzabili (e già questo oggi non è cosa da poco!) e per l’impressione generale che la scrittura e la strutturazione dei brani nascano da un processo creativo meditato e scrupoloso.
A conferma di ciò segnalo la melodia esuberante di brani come “Welcome”, la cui vitalità la rende parente dei più frizzanti episodi a firma Ritual, con un refrain notevole e una chitarra un po’ retrò e quasi di sapore sixties; allo stesso modo l’immediatezza apparente della successiva “Bright future”, giocata tra l’aggressività ritmica e il calore vintage delle tastiere di Mathias Beckius (raramente in evidenza, sebbene costantemente presenti) ne nasconde l’originale sviluppo, conducendoci al termine increduli dell’effettiva lunga durata. Sulla stessa linea “Revolution”, i cui intermezzi un po’ eccentrici ed il cui cantato sghembo sono analoghi ad alcuni “trucchetti” usati con successo dai connazionali Simon Says.
Mi rendo conto di non aver fornito alcun paragone con band del passato, una pratica da cui usualmente non mi astengo… in effetti mi risulta poco agevole scomodare i soliti grandi nomi; nonostante qualche inflessione genesisiana (ma solo sul versante chitarristico) e qualche strizzatina d’occhio ai King Crimson (come l’intro spigoloso di “Colliding Stars”), è forse il marchio dei Saga canadesi l’accostamento che più mi sento di fare, se non altro per la maestria nel forgiare linee vocali contagiose, per qualche tendenza hardeggiante (“An idiot” e soprattutto l’articolata “Chain of consequences”) sempre ben integrata nel contesto e per la netta predilezione di tempi sostenuti.
Per la natura stessa dell’album, ho volutamente concesso qualche ascolto extra prima di stendere queste poche righe; si tratta di un disco che alla prima impressione può risultare troppo piacevole per essere complesso e infine si rivela un’ideale compromesso tra fruibilità e intelligenza. Promossi a pieni voti, consigliati a chi apprezza la scena scandinava sinfonica odierna (Magic Pie, Brighteye Brison, Brother Ape…) facente capo all’etichetta Progress, sempre più raggiante e meno “autunnale”.

 

Mauro Ranchicchio

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