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SIMEON SOUL CHARGER Meet me in the afterlife Gentle Art of Music 2011 USA

La storia di questo gruppo originario dell’Ohio è alquanto inusuale, in quanto racconta di un gruppo formatosi a Cleveland ma poi “emigrato” in Baviera grazie all’aiuto manageriale prestato da volenterosi e genuini sostenitori tedeschi, incluso il leader degli RPWL Yogi Lang, autore del master del disco. Ed è sempre in Germania che la band ha programmato un lungo tour primaverile in coincidenza della pubblicazione di questo lavoro. Eppure se c’è una cosa che non si discute ascoltando il primo album dei Simeon Soul Charger (dopo due EP pubblicati, l’eponimo nel 2009 e “All rather dead” l’anno successivo) è l’essenza statunitense della musica, in tutte le sue declinazioni: quasi un mosaico di “Americana” formato da 13 deliziose tessere, ciascuna fondamentale per inquadrare la rappresentazione d’insieme, appena inquinato da elementi che puntano verso l’altra sponda dell’Atlantico.
A dire la verità, i primi tre brani forniscono pochi indizi su ciò che avverrà nel prosieguo dell’album: si tratta essenzialmente di rock alternativo in stile Radiohead primo periodo con guizzi zeppeliniani e vagamente psichedelici; ciò che sarà una costante e che si scopre immediatamente è la voce da non sottovalutare di Aaron Brooks, principale compositore e autore delle stralunate liriche - interpretate sempre con grande passione e intensità ma non di rado anche con malcelato umorismo – ed ex-frontman del gruppo pop-punk Trendy.
Superato un intermezzo strumentale percussivo con flauto, ci rendiamo finalmente conto della versatilità della band: “And he skinned them both” è fatta di riff chitarristici, elementi vaudeville, e un sapore di Queen degli anni ’70; con “Please” sono invece le tendenze “roots” che prendono il sopravvento, in una ballata semi-acustica guidata da una melodia vocale semplice che ha il pregio di restare in testa per giorni, condita da slide guitar, mandolino, banjo, cori: sarebbe l’ideale per un barbecue ai piedi degli Appalachi, se non fosse per il dubbio che tutto ciò contenga elementi di parodia… in ogni caso un brano delizioso! Da segnalare anche “Europa’s Garden”, un brano nervoso basato sull’intreccio delle due chitarre (suonate dal vocalist e da Rick Phillips) con un intermezzo liberatorio in cui si percepisce ancora il falsetto di Thom Yorke nelle corde di Aaron, ma il brano è assai più stravagante di qualsiasi cosa abbia partorito la band di Oxford.
Ancora folclore con il trittico acustico di “Song of the Sphinx”, “A Child’s Prayer” e “Dear Mother”, ma sempre in chiave un po’ ironica, preludio al gran finale degli 11 minuti di “The swallowing mouth” che riassumono e fondono le influenze citate, fornendo prova di coerenza stilistica e in cui per la prima volta le capacità strumentali dei quattro (una menzione per la sezione ritmica di Spider Monkey, basso e Joe Kidd, batteria) salgono alla ribalta aggiungendo ad una prima sezione teatrale e sopra le righe (alla maniera della celeberrima “The trial” dei Pink Floyd di “The Wall”) una coda costruita su lunghi assoli chitarristici dal forte impatto emotivo.
La sensazione che resta al termine dell’ascolto è quella di avere a che fare con una band che supportata da un’adeguata promozione potrebbe fare concorrenza a molti gruppi di rock alternativo spesso osannati oltre i propri meriti: la carne al fuoco è tanta, le ingenuità poche e il potenziale commerciale molto alto, bravi veramente.



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Mauro Ranchicchio

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