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SKY ARCHITECT A dying man’s hymn Galileo Records 2011 NL

Prassi comune in una recensione è l’accostare l’artista oggetto dello scritto a delle band o a degli autori storici, affinché il lettore possa farsi un’idea di quanto andrà ad ascoltare. Abitudine certamente meritevole, anche se si potrà sempre eccepire che un conto sarà leggere che il tal gruppo si ispira ai King Crimson, Yes o Genesis (a nomi noti ai più insomma), altro sarà invece venire a conoscenza che la “musa” stimolatrice è il misconosciuto gruppo kirghiso o guatemalteco (sarà anche cool l’informazione suggerita… ma di utilità prossima allo zero…)
Gli olandesi Sky Architect a chi si rifanno dunque?
Proviamo ad ascoltare il cd per farcene un’idea.
“A dying man’s hymn” è un concept di quasi ottanta minuti, diviso in 9 tracce, o meglio, in 3 lunghe suite, ognuna delle quali frazionata in tre parti.
“A rustle in the wind”, la suite n.1, apre il lavoro.
Sin da subito i pregi ed i difetti dell’album: la felice relazione tra momenti acustici ed altri spiccatamente elettrici (ed heavy), il mix tra il suono vintage (lo Hammond ma non solo) ed il prog più moderno nonché una certa ricercatezza delle frasi musicali.
L’aspetto negativo è essenzialmente uno e costante lungo tutta l’opera: l’eccessiva prolissità di molti passaggi che appesantiscono qualche brano e talvolta ne compromettono il giudizio finale.
Lungaggini che potranno senz’altro essere superate dalla giovane band olandese con l’acquisizione di quell’esperienza necessaria (“A dying man’s…. “ è solo il secondo album in fondo) a focalizzare meglio le numerose idee e a farne una intelligente sintesi. Ciò non toglie che, ad esempio, in “The campfire ghost’s song” l’ispirazione sia notevole così come il dazio pagato agli Yes (lo strumentale sul finale… molto “Howeiano”) e soprattutto agli svedesi Beardfish (probabilmente i “fratelli maggiori“ dei nostri).
La seconda suite “Death’s contraption” supera i 35 minuti e soffre quindi necessariamente di momenti di scarsa vena, ravvisabili soprattutto nel primo segmento “Woodcutters vile”.
I continui cambi di “umore”, le ritmiche spezzettate, le aperture sinfoniche di buona fattura caratterizzano la seconda parte (“Melody of the air”), mentre il promettente inizio aggressivo di “The breach” non copre qualche carenza di ispirazione e di personalità (anche nel vocalist Tom Luchies).
Terza ed ultima suite “Dream: revelation” stavolta concisa in poco più di 16 minuti: prima parte piacevole anche dal punto di vista melodico (malgrado la voce continui a non convincere) e con lo Hammond in primo piano. Seconda sezione interamente strumentale dapprima con le note malinconiche del solo pianoforte, poi l’affacciarsi della sezione ritmica e della chitarra ci conduce in territori musicali più complessi ed avventurosi. Terza parte, la title track, piuttosto monocorde ed incolore.
Un album contraddittorio, dunque, che lascia parecchi rimpianti per ciò che poteva essere fatto ma che per varie ragioni non si è realizzato in modo compiuto ed ottimale.
Qualche sprazzo anche di ottima fattura, ma anche tante, troppe zone d’ombra che ci lasciano un pizzico di delusione.
Lavoro comunque sufficiente ma, visti i pregi della band, preferiamo lo stesso “rimandarli a settembre”, consapevoli che le premesse ci sono e vanno solamente incanalate nella giusta direzione.
Se poi nella musica degli Sky Architect non troveremo solo echi dei Gentle Giant, degli Echolyn, dei Beardfish, ma anche rimandi al “famoso” gruppo guatemalteco ce ne faremo una ragione (oltre ad approfondire la scena centro-americana ovviamente…).
Last but not least, la copertina di “A dying man’s hymn” è ad opera di Mark Wilkinson (già autore di cover per i Marillion era Fish…).



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Valentino Butti

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