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SHOB Karma obscur autoprod. 2018 FRA

Il bassista francese Geoffrey “Shob” Neu torna sul mercato discografico a quattro anni dal debutto, sciorinando peraltro una certa abilità anche sulle sei corde. Il precedente “Pragmatism”, a nome Shob & Friends, metteva in mostra un jazz-rock/funky strumentale che spesso si sbilanciava verso il rock più duro, magari anche con qualche piccola tentazione metal; vi era un approccio che poteva far pensare a Vernon Reid, senza dimenticare il riferimento Hendrixiano d’origine. Stavolta, almeno durante la prima parte dell’album, Shob sembra voler affrontare la fase più astratta e per certi versi più “meditativa” del genere trattato. Non che vengano proposte composizioni soporifere, ci mancherebbe altro, ma sicuramente l’impatto risulta meno immediate rispetto al passato, probabilmente con un maggiore intento creativo di base. I due minuti iniziali di “Hors D'oeuvre” vedono il diretto interessato esibirsi con energia alle quattro corde, esclusivamente in compagnia del beatboxer Monkey D Beasty, che per l’appunto riproduce il suono delle percussioni solo con l’ausilio della propria voce. Un’atmosfera che ancora una volta ricorda i lavori solisti del già citato chitarrista di Defunkt e soprattutto Living Colour. È il preludio dell’inizio cupo e minaccioso di “Straight Ahead”, che però subito dopo si rilassa per lunghi tratti con la chitarra di Denis Cornardeau, prima di tornare a delle “contrazioni” dure che ne caratterizzano la conclusione. “Except I'm 65” potrebbe essere un misto tra soul quieto e bossa nova psichedelica, caratterizzato dal bel cantato di Laurène Pierre Magnani, che si adatta benissimo anche al repentino cambio in stile Rage Against the Machine, dove lo stesso Shob snocciola assoli dissonanti e velocissimi sullo stile del succitato Reid o di un altro mostro sacro del settore come il primo Ron Thal. Chitarristi il cui stile viene ripreso a ruota nell’intro dei cinque minuti di “Enclosures” grazie di nuovo a Cornardeu, per poi lasciare il passo al funky e ai “metropolitani” strumenti a fiato che contribuiscono a variare molto le atmosfere. La title-track è una versione light di quanto contenuto su “Heavy machinery” (1996), che sancì la collaborazione tra i fratelli Johansson e Allan Holdsworth: atmosfera non certo solare, le percussioni di Ludovic Lesage, i suoni estranianti delle tastiere di Tony Lavaud e della chitarra di Gabriel Druot, con Shob che martella il proprio basso incessantemente…
Da questo momento in poi, qualsiasi possibile interferenza “oscura” sembra sparire dall’orizzonte sonoro. “Rusty Dog” e “The Right Move”, entrambe con Shob anche alla chitarra, hanno un incedere sempre più allegro, grazie anche ai fiati briosi di Rémy Béesau (tromba), Olivier Miqueu (trombone) ed FM Moreau (sax). “Green Elephant” è tra gli episodi più impegnativi tecnicamente, soprattutto nelle linee di basso “slappate” e nel drumming di Morgan Berthet. I restanti pezzi sono tutti validi (il ruolo di chitarrista nelle ultime cinque composizioni è ricoperto sempre da Shob), anche se ad un certo punto l’album si rivela un po’ troppo lungo e quindi si potrebbe far fatica ad arrivare fino alla fine, anche perché gli andamenti sono abbastanza simili l’uno con l’altro. Di certo “The Professor” e ancora di più “Divergence”, con un’avvincente seconda parte, hanno un bel groove, ma il pezzo migliore del lotto è probabilmente la conclusiva “Sulfur”.
Questo ritorno di Shob e dei suoi collaboratori transalpini non è dunque un album riservato solo ai bassisti, come del resto non lo era affatto il suo esordio. Un buon lavoro, che se fosse stato un po’ più breve si sarebbe ascoltato dall’inizio alla fine con maggior piacere.



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Michele Merenda

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