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SOLARIS Nostradamus 2.0 - Returnity autoprod. 2019 UNG

Dove eravamo rimasti? Avevamo lasciato la mitica formazione ungherese alle prese con un gioiellino come “Martian chronicles 2”, che pur non raggiungendo le vette toccate con l’esordio del 1984 e con il seguente doppio “1990”, rinverdiva bene i fasti di uno stile a cui molti appassionati di progressive rock sono legati. A cinque anni di distanza da quel lavoro i Solaris provano a fare un altro bis, puntando sulla seconda parte di “Nostradamus”, concept giŕ proposto con il ritorno sulle scene negli anni ’90. Similmente a quel disco, anche “Nostradamus 2.0 – Returnity”, non convince del tutto, mostrando sia ottime intuizioni che scelte di rottura che lasciano non poche perplessitŕ. L’album č incentrato sulla lunga suite di trentaquattro minuti intitolata “Returnity (Return to eternity)” e suddivisa in sei parti. La partenza č affidata ad un elegante tema al piano elettrico, seguito da un canto femminile in latino, evocativo e dai connotati vagamente folk. Dopo poco piů di un minuto l’entrata della sezione ritmica e i cori fanno diventare la musica molto maestosa. Il flauto di Attila Kollar spinge poi sulle coordinate piů classiche dei Solaris, ma superati i tre minuti una svolta non esattamente prevista, con una spinta forte sul versante heavy-prog, sorprende in maniera non esattamente positiva. Come ogni suite che si rispetti, anche questa prosegue tra numerosi cambi di tempo e di atmosfera, ai quali va aggiunta l’alternanza tra voce femminile, maschile e coro. Sebbene tutto scorra in maniera fluida, la qualitŕ resta purtroppo altalenante. Quando dialogano le tastiere e il flauto č sempre un bel sentire, con rimandi stilistici al classico rock sinfonico tecnologico della band e qualche brivido dietro la schiena si avverte. In altri frangenti, tuttavia, la chitarra appare troppo ruvida e stride un po’ nel contesto e se si pensa al sound “storico” dei Solaris. La costante della composizione č un mood misterioso e un po’ sinistro che si avverte per tutta la sua durata. Oltre “Returnity (Return to infinity)” sono presenti altri tre brani brevi (nessuno tocca i quattro minuti), strumentali. Molto gradevoli “Double helix” e “Deep blue”, che contribuiscono a far crescere leggermente il livello qualitativo dell’album. “Radioscope”, invece, ricade nel tranello di sonoritŕ piů pesanti. Volendo dare un voto a “Nostradamus 2.0” potremmo generosamente assegnargli anche un 7, perché i lampi di (grande) classe non mancano affatto, ma analizzando nel complesso l’intero lavoro possiamo dire di non ritrovarci di fronte ai migliori Solaris



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Peppe Di Spirito

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